Quei ragazzi sospesi tra desideri e realtà
nelle famiglie senza più parole
di Massimo Recalcati
La ferocia del giovane famiglicida di Paderno non può essere separata dal candore della sua autogiustificazione: volevo separarmi da loro, volevo non subire più l’oppressione della mia famiglia. In gioco è il grande tema dell’adolescenza: trovare la propria libertà svincolandosi dalle catene dei legami primari. Ma ciò che in questo caso trasforma in un dramma questa legittima esigenza che ogni adolescente porta con sé è il passaggio all’atto criminale.
[…] Se in ogni adolescente c’è il sogno di emanciparsi dai vincoli della propria famiglia, non tutti ricorrono all’esercizio efferato della violenza per appagare questo sogno.
[…] La violenza adolescente spesso porta con sé un fantasma giustizialista. In questo caso con la complicazione tragica che la vittima diviene giudice e boia da un istante all’altro. Ma più in generale, il passaggio all’atto violento implica sempre uno sfaldamento della legge della parola. Non mette, dunque, sotto accusa solo il carattere smidollato dei genitori o la frammentazione della famiglia ipermoderna, ma un’epoca intera che sputa senza ritegno su questa legge.
È evidente che la stagione della guerra che stiamo collettivamente vivendo segnala un tracollo clamoroso della parola nella forma di un fallimento generalizzato della politica. Le famiglie non sono nicchie separate dalla società, ma respirano la sua aria a pieni polmoni. Il nostro tempo non è, dunque, solo il tempo (benedetto) dell’evaporazione della famiglia patriarcale, ma è anche il tempo che non sa offrire risposte a quella evaporazione se non sul piano del rimpianto nostalgico del passato o della critica nichilistica del legame famigliare tradizionale. Il problema credo sia invece quello di come si possa essere dei genitori sufficientemente buoni in un tempo dove il carattere impossibile di questo mestiere è messo a dura prova da una realtà che svaluta sistemicamente il valore testimoniale della parola. Non si tratta allora di riesumare una vecchia e ormai decrepita autorità, ma di dare sempre più valore alla testimonianza singolare. Quanto, per esempio, i media sanno valorizzare gli infiniti atti di testimonianza genitoriale positivi e non solo esibire i drammi famigliari efferati come quello di Paderno che di fatto si contano sulle punte delle dita? Al tempo stesso occorre non trascurare la presenza di un disagio effettivo che caratterizza il nuovo mondo dell’adolescenza.
Si tratta anche in questo caso di non ignorare ma, al tempo stesso, di non diffondere panico, allarmismi inutili per un’emergenza che se è tale lo è oramai da diversi decenni. Piuttosto evitare l’eccesso di medicalizzazione, di psichiatrizzazione, di vittimizzazione del disagio. I sintomi e le crisi degli adolescenti attendono interlocutori che non si limitino a riconoscere in essi una malattia da curare, ma una modalità per provare ad esistere a proprio modo. Il problema non è riducibile a quello che accade nelle famiglie, ma al collasso generalizzato della legge della parola.
Si può invece decidere, come fanno alcuni, di imputare proprio alla disgregazione della famiglia patriarcale la causa prima della diffusione della violenza giovanile. Bisogna allora fare la ramanzina ai nuovi genitori che non saprebbero più dare di sè stessi l’immagine di adulti autorevoli, dimenticando però che nel nostro tempo l’autorevolezza non può più coincidere con la solidità e l’infallibilità esemplare. La testimonianza genitoriale è oggi senza modelli, obbligata a reinventarsi, a barcamenarsi, a navigare in mare aperto.
Il nostro tempo impone la testimonianza singolare al posto dell’esemplarità ideale. Certo, si può e rimpiangere il passato, la tradizione, Dio, la patria e la famiglia naturale. Ma si può davvero avere nostalgia della vecchia famiglia dove la voce del padre sentenziava inflessibile il senso della Legge, del bene e del male, rendendo di fatto impossibile ogni circolazione della parola? Davvero pensiamo che per rispondere all’attuale crisi della famiglia la soluzione più adeguata sia coltivare il rimpianto frustrato per i bei tempi andati? Ma erano poi davvero così belli quei tempi? Basterebbe pensare alla violenza pedagogica che imperava, prima della contestazione del ’68, nelle nostre scuole e nelle nostre famiglie per avere dei seri dubbi.
Il rigore di quei padri padroni e di quelle madri sacrificali — di cui la nostra letteratura e il nostro cinema hanno offerto ritratti indimenticabili — sarebbe il giusto antidoto per questa disgregazione in corso non solo della famiglia contemporanea ma anche del discorso educativo in quanto tale?
Non credo. La tragedia di Paderno solleva per l’ennesima volta un grande tema: come reimpostare il discorso educativo nel tempo della sua evaporazione senza ricadere in una forma usurata di nostalgia patriarcale? Gli psicologi fustigatori delle famiglie smidollate hanno già dimenticato ovviamente la prova straordinaria che le famiglie italiane hanno dato durante il periodo della pandemia.
Quanta cura, quanta pazienza, quanta dedizione è stata necessaria offrire ai nostri figli in quel tempo traumatico? Cosa saremmo stati senza l’ancora del legame famigliare? Condivisione dell’angoscia, della difficoltà, della frustrazione, della precarietà, della vita rinchiusa.
Non è forse questa un’altra immagine della famiglia che dovremmo imparare a coltivare rispetto a quella che la riduce ad una centralina pedagogica e che molti vorrebbero ripristinare?
Repubblica 04/09/2024
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commento
“Volevo separarmi da loro, volevo non subire più l’oppressione della mia famiglia”. Queste sono le poche parole del figlio che ha brutalmente assassinato genitori e fratello a Paderno. Ovviamente nulla può giustificare un atto così efferato, apparentemente senza una ragione plausibile, e in un giorno di festa con la famiglia riunita per il compleanno del padre.
Non si sa altro, ma tutti pronti, specialmente “gli specialisti”, a formulare ipotesi, supposizioni, o sbrigativamente invocare l’atto di follia. Ma nessuno si chiede cosa c’è dietro il “non voler subire l’oppressione della mia famiglia”, se immaginata, ingigantita, ingiustificata. Prima di emettere sentenze sarebbe importante conoscere la storia della famiglia perchè ogni storia familiare è unica e diversa. Non solo, ma perchè in ogni famiglia ci sono depositate tracce invisibili di storie dei nostri progenitori che senza saperlo influenzano la nostra vita presente.
Per questo sarebbe importante capire perché e come questo figlio si sarebbe sentito oppresso dalla sua famiglia, al punto da rivendicare ossessivamente la sua libertà, il suo sentirsi sè stesso.
Ci sarebbe da chiedersi e da sapere a questo punto se il figlio abbia avuto la possibilità di comunicare con parole ai genitori il suo malessere interiore, il suo bisogno di sentirsi libero. Oppure in quella famiglia regnava la legge, come dice Recalcati, dello “sfaldamento della legge della parola”, la legge cioè della non comunicazione, la legge del silenzio emotivo, del non chiedere più del cosa vuoi, del cosa ti manca, del cosa desideri. Il tempo del vivere in famiglia è diventato sempre più spezzettato, ognuno con il suo tempo e il suo spazio al chiuso nella sua stanza, tutti con incollato in mano per ore uno smartphone. Creando così il vuoto familiare. Per analogia mi viene in mente quello che disse una madre durante una terapia familiare che la figlia di 10 anni la mattina chiamava il gruppo delle amiche per fare tutte assieme colazione contro il parere inascoltato della mamma. Mamma impotente, genitori impotenti e senza strumenti per arginare l’isolamento familiare, avendo tutti l’impressione di essere alla deriva navigando in mare aperto e magari in burrasca.
Tuttavia mi sembra di poter aggiungere che in mancanza di una comunicazione verbale esplicita, può esserci una comunicazione silenziosa, anche se enigmatica, fatta di gesti, atteggiamenti, comportamenti, apparentemente insignificanti, ma che saputi decifrare, fanno apparire il chi siamo e il chi sei. Così sono cresciuto nella mia famiglia e specialmente nella relazione con mio padre, taciturno della sua vita relazionale, soprattutto della sua vita familiare di origine, ma mi capiva senza dire una parola e mi ha dato quello che ha potuto senza chiedermi un perché e senza voler essere “una centralina pedagogica” È lui invece che mi ha fatto una richiesta esplicita alcuni mesi prima di morire: “Mi raccomando, non ti scordare di me”. E con questo mi lascia un grande insegnamento e una preziosa eredità da trasmettere ai figli: Che noi viviamo ancora se siamo ricordati!