Quel che conta nell’eredità è la trasmissione del desiderio Massimo Recalcati

Quel che conta nell’eredità è la trasmissione del desiderio

Massimo Recalcati

Un sintomo sociale dell’attuale difficoltà che caratterizza il rapporto tra le generazioni è l’assottigliarsi dell’eredità materiale: sempre meno i figli ereditano ricchezze accumulate dai propri genitori o dai propri nonni. La crisi economica oltre a rendere più fosco il futuro dei nostri figli sembra che li abbia spogliati anche del loro passato rendendoli più poveri, meno garantiti dalla possibilità di contare su chi li ha preceduti. Tuttavia la psicoanalisi insegna che l’eredità che più conta non è fatta tanto di beni, di geni, di rendite o di patrimoni. Essa concerne le parole, i gesti, gli atti e la memoria di chi ci ha preceduti. Riguarda il modo in cui quello che abbiamo ricevuto viene interiorizzato e trasformato dal soggetto. Nell’ereditare non si tratta dunque di un movimento semplicemente acquisitivo, passivo, come quello di ricevere una donazione. I nostri figli ereditano ciò che hanno respirato nelle loro famiglie e nel mondo e che hanno fatto proprio.

La più autentica eredità consiste di come abbiamo fatto tesoro delle testimonianze che abbiamo potuto riconoscere dai nostri avi. Da questo punto di vista ogni figlio deve accogliere che il suo destino di erede è quello di essere anche orfano – come l’etimologia greca, mostra: erede viene dal latino heres che ha la stessa radice di cheros, che significa deserto, spoglio, mancante e che rinvia a sua volta al termine orphanos.

Cosa illustra questa convergenza dell’erede con l’orfano? Diverse cose, tra le quali il fatto che il giusto erede non si limita a ricevere ciò che gli avi gli hanno lasciato, ma deve compiere, come direbbe Freud attraverso Goethe, un movimento di riconquista della sua stessa eredità: “ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se lo vuoi possedere”. In questo senso l’eredità autentica implica un movimento attivo del soggetto più che una acquisizione passiva. Ma cosa si eredita se non si eredita un Regno, se non si è figli di Re? Quello che conta nell’eredità è la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. È il modo con il quale i nostri padri hanno saputo vivere su questa terra provando a dare un senso alla loro esistenza; è il modo con il quale i nostri padri hanno dato testimonianza del loro desiderio, ovvero che si può vivere con slancio, con soddisfazione, dando senso alla nostra presenza nel mondo.

In questo senso il giusto erede è colui che può ricevere qualcosa dai suoi padri proprio perché non si limita a riprodurlo passivamente. Non è questo il destino di ogni figlio? Lo statuto orfano di ogni figlio non significa anche questo? Non significa che siamo obbligati ad inventare la nostra eredità? In un processo positivo di filiazione non è forse sempre in gioco l’eredità come eresia, come una deviazione creativa del solco tracciato da chi ci ha preceduto?

Repubblica 13 settembre 2013 37  sez. Cronaca

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Commento

L’articolo di Recalcati ci interroga: Cosa abbiamo ereditato dai nostri padri e dalle nostre madri? E che significa ereditare? La domanda apparentemente può sembrare banale. Ma non lo è. Se fossero cose materiali, si farebbe presto a farne l’elenco. Se non sono beni materiali allora, che significa ereditare, di quali beni si tratta? Di quei beni, che non si vedono, che non hanno peso e misura, che forse pensiamo che non esistono, che sono sepolti nella memoria, pozzo profondo dove si accumulano sentimenti, espressioni, voci, affetti, comportamenti, immagini, relazioni. Tutti alla rinfusa, senza ordine di priorità o di qualità. E tutti testimoniano una presenza, non sono vuoti a perdere, sono ritagli di vita da ricomporre come pezzi di puzzle per dare un senso a quel che siamo così come siamo.

Allora alla domanda: Che cosa mi hanno lasciato in eredità mio padre e mia madre? Quali sono le tracce della loro presenza in me? Come scoprirle e scoprirne il peso, il valore nel mio essere io? Non ci sono molte strade, se non quella antica dell’oracolo di Apollo a Delfi: Conosci te stesso!

E conoscere se stessi ci impegna a rivisitare la nostra storia nella famiglia d’origine, a scandagliare il nostro animo, a ricercare le tracce familiari che si sono depositate in noi senza saperlo, a fare i conti con il nostro passato e con i nostri genitori nel bene e nel male. Non si tratta di idealizzare le figure genitoriali, usando la lente di ingrandimento per i ricordi piacevoli e luminosi, relegando quelli oscuri ancor più nel fondo del pozzo. Tutti sono le due facce della stessa medaglia.

È quello che si fa nella psicoterapia familiare: la ricostruzione della storia familiare, dare un senso agli accadimenti vissuti, ricucirli pazientemente con il filo della memoria e così attivare un processo di pacificazione familiare, anche se a volte postumo. Solo così si può scoprire l’eredità e con questa la presenza dei nostri genitori che ci vivono accanto e così non sono morti.

Mi sono chiesto mille volte e mi chiedo ancora perché mio padre poco prima di morire mi abbia fatto l’appello esplicito: Non dimenticarti di me! Fortunatamente questo appello non è caduto nel pozzo, ma mi vive accanto come lascito prezioso che mi stimola e mi spinge a far mio questo testamento. E a mia volta rilanciarlo e trasmetterlo alla mia discendenza in forma nuova.