Considerata in passato una malattia mentale piuttosto rara, la depressione, a partire dagli anni ’80 si sarebbe diffusa in Occidente con la rapidità di un’epidemia. Negli USA il 10% degli adulti ne soffrirebbe e quasi un quinto della popolazione ne avrebbe sofferto nel corso della vita (Kessler et al., 2003). I dati epidemiologici offrono un quadro allarmante anche per l’Europa, sebbene la diffusione della patologia sembrerebbe qui più contenuta. Le nuove generazioni ne sembrerebbero colpite in misura crescente. Mentre alla fine degli anni ’90 i settantenni statunitensi avrebbero avuto, nel corso della loro vita, una probabilità di sperimentare la depressione del2%, i loro nipoti, con alle spalle un quarto dei loro anni, avrebbero già corso un rischio di depressione di quattro volte superiore. Come osservano Pettit e Joiner (2006): «Se questo trend dovesse continuare, immaginate a quali percentuali di rischio si arriverebbe quando questi adolescenti raggiungono l’età adulta!» (p.18).
Sulla base dei dati epidemiologici di cui disponiamo l’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che entro il 2020 la depressione diventerà la seconda causa principale di disabilità nel mondo, preceduta soltanto dalle malattie cardiovascolari. Sono previsioni inquietanti anche per l’economia delle nazioni. Negli Stati Uniti, gli economisti stimano che la depressione sia responsabile di una spesa di 43 miliardi di dollari l’anno (Greenberg et al., 1993). Un rapporto della London School of Economics (2006) calcola che la depressione, unicamente all’ansia cronica, a causa dei loro effetti invalidanti, producano in UK una perdita di PIL di 12 miliardi di sterline all’anno. Insomma la depressione, già tremendamente costosa, potrebbe diventare una catastrofe anche economica.
Sono attendibili questi dati? L’Occidente sta davvero implodendo nella depressione? Rassicuro subito il lettore: come vedremo fra breve le cose non stanno esattamente così. Tre fatti sono invece indiscutibili.
1. Si è verificato un aumento straordinario di pazienti diagnosticati e trattati per questa psicopatologia. Questo aumento è davvero sbalorditivo per i pazienti ambulatoriali: negli USA tale incremento tra il 1987 e il 1997 ha raggiunto il 300% (Olfson et al., 2002).
2. Altrettanto vertiginoso è stato l’aumento degli antidepressivi. Il loro uso fra gli ad ulti negli USA è triplicato tra il 1988 e il 2000. La spesa dei cittadini statunitensi per antidepressivi negli anni ’90 è aumentata del 600% fino a raggiungere i 7 miliardi all’anno nel 2000.
«Entro il 2000 gli antidepressivi hanno superato tutti gli altri farmaci usati non solo in psichiatria ma anche in medicina. Con l’eccezione degli antinfiammatori non-steroidei, gli antidepressivi sono stati prescritti più frequentemente di ogni altro farmaco. Un’indagine del National Centre for Health Statistics del governo degli USA ha riscontrato che nel 2003-2004 gli antidepressivi sono stati prescritti a 310 pazienti su 1.000» (Shorter, 2009, p. 169).
L’incremento è stato particolarmente rilevante per bambini, adolescenti e anziani: per loro la percentuale di prescrizioni di antidepressivi è cresciuta negli anni ’90 tra il200 e il 300% (Crystal et al., 2003; Thomas et al., 2006). Per lo meno i tre quarti degli antidepressivi prescritti negli USA appartengono alla famiglia del Prozac, sono cioè inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI selective serotonin reuptake inhibitors). La storia della depressione negli ultimi trent’anni e delta sua sbalorditiva crescita è la storia dell’avvento dell’era degli SSRI, di cui il Prozac è il più conosciuto.
3. Il Prozac e gli altri SSRI sono stati oggetto da parte dell’industria farmaceutica di una campagna di marketing senza precedenti che si è rivolta direttamente ai consumatori, oltre che ai medici. Entro il 2000 le case farmaceutiche sono arrivate a spendere 2 miliardi di dollari per annunci pubblicitari diretti ai consumatori. È una campagna che ha cercato, e in larga misura è riuscita, a trasformare la rappresentazione sociale, non soltanto della depressione, ma della stessa tristezza. Da emozione, provocata da perdite e altri eventi negativi, la tristezza è diventata una malattia dovuta ad uno squilibrio biochimico del cervello che può essere curata, così come viene curata l’ipertensione o il diabete, con farmaci adeguati – il Prozac e gli altri SSRI. Sei in difficoltà con tuo marito? Con i tuoi figli? Ti senti a disagio con i colleghi di lavoro, con gli amici? Ti senti triste, non provi piacere a stare con loro? Prendi il Prozac e tutto si appianerà. Questo è il tipo di messaggio che, soprattutto grazie alle immagini, questa pubblicità implicitamente trasmette. Il modo con cui sono state concepite depressione lieve e tristezza dal senso comune, oltre che dagli psicoterapeuti, risulta ribaltato: anziché essere le conseguenze di problemi familiari e lavorativi, ne sono le causa.
Questi tre fenomeni sono in larga misura effetti sia del cambiamento da parre del DSM dei criteri che definiscono la depressione, sia del prevalere di un’impostazione biologica in psichiatria.
Il DSM III, a partire dalla sua terza edizione del 1980, ha introdotto criteri così poco discriminativi e decontestualizzati per la diagnosi di “depressione maggiore” che confluiscono in questa categoria diagnostica tanto persone normalmente tristi a causa di eventi negativi, quanto pazienti affetti da depressione clinica. La distinzione tra la depressione come condizione patologica e come normale risposta a eventi negativi, da sempre accreditata dalla stessa psichiatria biologica, Kraepelin incluso, è stata eliminata. Soltanto il lutto per la morte di una persona cara può evitare la diagnosi di depressione maggiore, purché i comportamenti indicati dal DSM come sintomi non persistano oltre due mesi. In omaggio al principio che una diagnosi è tanto più “scientifica” (oggettiva) quanto più decontestualizzata, tutti gli altri possibili eventi negativi non sono più presi in considerazione. Duemilacinquecento anni di tradizione clinica occidentale sono stati spazzati via dalla terza edizione del DSM in poi. Persino la tradizionale distinzione psichiatrica fra le depressioni “endogene” causate per definizione da processi interni, in assenza di eventi esterni negativi- e le depressioni “reattive”- scatenate da perdite e altri eventi esterni negativi – è ignorata. «Tentando di definire il tipo di sintomi caratteristici dei disturbi depressivi, senza far riferimento al contenuto nel quale i sintomi si verificano, la psichiatria contemporanea ha inavvertitamente caratterizzato la normale sofferenza intesa come un disturbo psichico”(Horwitz e Wakefield, 2007, pp. 9-10). Umore depresso, perdita di interesse insonnia diminuzione dell’appetito, incapacità a concentrarsi per un periodo di 2 settimane, possono verificarsi, per un periodo di due settimane, a seguito della scoperta del tradimento del partner o di una malattia che mette a rischio la propria vita o quella di una persona amata, di un fallimento lavorativo, di una promozione negata e di molti altri eventi negativi. In quanto adeguati al contesto, questi comportamenti non sono sintomi ma normali reazioni appropriate alle circostanze.
Anche la differenza fra le depressioni gravi unipolari e quelle che una volta si chiamavano psicosi maniaco-depressive è stata in gran parte infranta attraverso la creazione di due sottotipi di disturbi bipolari, nel secondo del quale (disturbo bipolare II) possono tranquillamente rientrare le depressioni unipolari. Non è infatti necessario che il paziente metta in atto comportamenti maniacali per ricevere una diagnosi di disturbo bipolare II. Sono sufficienti quattro giorni di umore irritabile, unicamente ad un diminuito bisogno di sonno e ad un aumentato livello di attività e di loquacità per soddisfare i criteri di un “episodio ipomaniacale”, e per essere di conseguenza possibili candidati ad una diagnosi di disturbo “bipolare”.
Come conseguenza, persone che in passato sarebbero state considerate sofferenti per problemi esistenziali, sono diventati pazienti farmacologicamente trattabili e pazienti depressi rischiano ora di diventare malati (affetti da un disturbo bipolare) da mantenere per tutta la vita sotto farmaci.
Non siamo quindi di fronte a un’implosione dell’Occidente nella depressione. Le depressioni gravi, unipolari o bipolari, continuano ad essere infrequenti. Sono cambiati i criteri diagnostici: la tristezza si è trasformata in un disturbo mentale, e la depressione clinica è confluita nell’erede della psicosi maniaco-depressiva.
Naturalmente anche questo è un fenomeno inquietante, ma di natura diversa.
« Non ci sono prove che le compagnie farmaceutiche abbiano avuto un ruolo nello sviluppo dei criteri diagnostici del DSM III. Tuttavia – come osservano ironicamente Horwitz e Wakefield (2007)- “per una casualità davvero fortunata, il nuovo modello diagnostico era idealmente adatto a promuovere il trattamento farmaceutico delle condizioni che esso delineava(…)”. La diagnosi di depressione maggiore, che usava sintomi comuni come la tristezza, la mancanza di energia o l’insonnia come indicatori, era particolarmente idonea ad espandere il mercato del farmaci psicotropi perché inevitabilmente includeva molti pazienti che in passato sarebbero stati considerati sofferenti per problemi esistenziali» (p. 182).
È quanto si è verificato come abbiamo già visto.
L’idea che la depressione derivi da una anomalia nella chimica del cervello risolvibile con il Prozac e gli altri inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), così tanto pubblicizzata dalle case farmaceutiche, non è un prodotto autonomo delle Big Pharma. Essa riassume una tesi che ha dominato in modo pressoché incontrastato la psichiatria nel corso degli anni ’90. In virtù di tale teoria la causa della depressione risiederebbe in uno squilibrio biochimico endogeno, derivante da carenze di serotonina. Ne conseguirebbe che i trattamenti farmacologici rivolti alla serotonina- gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) – che presumibilmente correggono questo squilibrio chimico, sarebbero la risposta appropriata ai disturbi depressivi.
L’insistenza con cui questa tesi è stata promossa dalle case farmaceutiche e dalla psichiatria biologica, ha dato l’impressione che le ricerche avessero davvero dimostrato che le deficienze chimiche siano la causa dei disturbi depressivi e che i farmaci SSRI funzionino perché correggono queste anomalie nel sistema dei neurotrasmettitori. Si tratta di un’impressione fallace. Esiste uno iato profondo fra ciò che è stato pubblicizzato e quello che la letteratura scientifica è riuscita a provare (Lacasse e Leo, 2005). Eppure negli anni ’90 davvero pochi, era gli psichiatri e tra gli stessi psicoterapeuti, osarono contrastarla.
A partire dal 2000 il panorama è cambiato. La psichiatria biologica continua ad essere attestata sulle proprie posizioni , che sono tuttora largamente maggioritarie. Tuttavia per lo meno negli USA si sono sviluppati contributi critici che hanno duramente messo in questione sia la tesi che la depressione sia una malattia del cervello, assimilabile all’asma o al diabete, sia l’efficacia dei SSRI. Pur avendo La depressione come bersaglio, questa letteratura sferra un attacco più generale alla psichiatria biologica. «All’inizio del XXI secolo- afferma lo psichiatra statunitense Dan Blazer (2005) la psichiatria si sta confrontando con un altro dilemma: ha trovato il cervello ma ha perso la persona con la sua famiglia e la sua comunità. E le critiche ancora una volta stanno emergendo (p. 1 2). Ancora più drastico è lo storico della medicina Edward Shorter, (.2009):
Si suppone che la medicina faccia progressi, che avanzi in termini scientifici in modo tale che ogni generazione possieda maggiori conoscenze e agisca in modo più competente rispetto a quella precedente. Questo non è accaduto in linea di massima in psichiatria, per lo meno non nella diagnosi e nel trattamento della depressione e dell’ansia, dove si è verificata una sottrazione di conoscenze, anziché un incremento ‘
E aggiunge
Le diagnosi effettuate tra gli anni ’30 e gli anni ’70 del XX secolo erano in grado di cogliere .meglio la natura del fenomeno di quanto siano in grado quelle formulate oggi, che sono artefatti nati da compromessi politici e sostenuti dalla promozione farmaceutica piuttosto che descrizioni scientificamente accurate di ciò che non funziona in una persona. Così stiamo perdendo terreno in questo campo del sapere» (p. 4).
Alcune tra le voci più critiche provengono dalla stessa psichiatria e psicofarmacologia. David Healy è un esempio. In passato protagonista della psicofarmacologia, ex segretario della British Association for Psychopharmacology, è diventato uno dei principali consulenti nelle cause contro la Eli Lilly, produttrice del Prozac, e di altre industrie farmaceutiche. Ha inoltre denunciato, in alcuni testi diventati celebri (1998; 2002; 2004), le collusioni fra la psichiatria e le Big Pharma e i comportamenti antietici di queste ultime, soprattutto in tema di SSRI. Altri contributi critici provengono dalla psicologia, dalla sociologia, dalla storia e sono prese in seria considerazione dagli stessi psichiatri. È il caso di The Loss of Sadness. How Psychiatry Transformed Norma/ Sorrow into Depressive Disorder di Horwicz e Wakefield (2007). Questo testo, tra i più documentati e più duri verso le posizioni della psichiatria biologica in tema di depressione, è preceduto dalla prefazione di Robert Spitzer. Presidente della cask force del DSM III e quindi principale imputato delle critiche degli autori, Spitzer ammette che bisogna includere il contesto nei criteri che definiscono la depressione: «il problema dovrà essere risolto perché questo libro l’ha reso evidente; non può più essere ignorato» (p. IX).
Ma che cosa mette in luce questa letteratura?
Prima di tutto che dati di cui disponiamo dimostrano che circa il 25 % dei pazienti depressi presenta livelli bassi di serotonina o di norepinefrina (Valenscei n, 1998; Horwicz e Wakefield, 2007). Se l’ipotesi della deficienza di serotonina fosse etiopatologicamente corretta, spiegherebbe quindi soltanto una parte limitata di casi. Ma non è corretta, almeno etiopatologicamente. I bassi livelli di serotonina riscontrati in questi pazienti possono infatti essere la conseguenza anziché la causa della depressione. Nessuna evidenza empirica ha dimostrato che lo squilibrio chimico sia la causa della depressione. Anzi, sappiamo che nei primati non umani accade esattamente il contrario. Le ricerche di laboratorio, condotte già negli anni ’80 dallo psichiatra Michael McGuire e dai suoi collaboratori (McGuire et al., 1983; Raleigh et al., 1984) sulle scimmie Vervet, la cui vita sociale è caratterizzata da relazioni gerarchiche forti e stabili con un maschio dominante in ciascun gruppo, hanno dimostrato che i livelli di serotonina e di altri correlati neurochimici della depressione, variano _in funzione dei cambiamenti di status sociale. Quando gli sperimentatori tolsero dai rispettivi gruppi i maschi dominanti, i loro livelli di serotonina, che erano doppi rispetto a quelli degli altri maschi del gruppo, si abbassarono rapidamente, così come la loro attività. Le scimmie iniziarono anche a rifiutare il cibo. Insomma agli occhi di osservatori umani sembravano “depresse”. Al contrario, i livelli della serotonina delle scimmie, che avevano guadagnato uno status alto dopo l’allontanamento dei maschi dominanti, si alzarono fino a raggiungere i valori dei maschi dominanti allontanati. Questi risultati sono stati replicati più recentemente con scimmie femmine (Shively et al., 1997) e in setting naturali (Berman et al., 1994). Il neuroendocrinologo Roberc Sapolsky ha inoltre riscontrato in babbuini in condizione di libertà nell’Africa orientale che la posizione di subordinazione cronica produce quantitativi elevati di ormoni dello stress, simili a quelli riscontrati da alcune ricerche nelle persone depresse. Tuttavia quando la posizione nella gerarchia cambia, gli ormoni dello stress si riducono (Sapolsky, 1989). È inoltre emerso che vantaggi comportamentali e neurochimici connessi a posizioni di alto rango sono presenti solo se le gerarchie di dominanza sono stabili. Quando la gerarchia è instabile, e quindi le posizioni dominanti sono precarie, anche i primati di alto rango producono quantitativi di ormoni dello stress simili ai gregari (Sapolsky, 2005).
Anche la tesi che la depressione sia una malattia che si trasmette geneticamente non ha ricevuto evidenze empiriche che la confermino. Le ricerche, molte delle quali. longitudinali, condotte per gran parte del secolo scorso sui gemelli, soprattutto monozigoti, che sono geneticamente identici, hanno dato risultati diversi. La maggior parte degli studi concorda che, sulla base di quanto è emerso da queste ricerche, la componente genetica per la depressione abbia un’incidenza del 30-40% (Gilberc, 1992). Gli straordinari sviluppi della genetica negli anni’90 hanno permesso ai ricercatori di mappare specifici geni e di esaminarne le connessioni con lo sviluppo della depressione. Tuttavia i risultati finora prodotti da queste ricerche indicano che la genetica gioca un ruolo limitato nello sviluppo della depressione. Una delle ricerche che ha suscitato maggiore interesse riguarda il gene 5-HTT, che controlla il modo con cui la serotonina trasmette i messaggi attraverso le cellule cerebrali. Sebbene presentata dalla psichiatria biologica come confermante l’ipotesi genetica della depressione, la ricerca di Caspi et al., non ha riscontrato effetti diretti fra il gene 5-HTT e la depressione. L’unico effetto diretto emerso è invece di tipo ambientale: tra chi aveva sperimentato nei cinque anni di vita precedenti eventi negativi era più frequente la depressione. Le tre varianti genotipiche, riscontrate dagli autori nel campione sono risultate significative solo in interazione con le variabili ambientali. L’influenza genetica potrebbe quindi al massimo essere un fattore di rischio o di protezione. L’impianto della ricerca è tuttavia tale da non permettere neppure questa conclusione. Dai risultati emersi, le differenze riscontrate nel gene 5-HTT possono essere altrettanto legittimamente interpretate come normali variazioni genetiche nella tendenza delle persone a diventare tristi in risposta ad eventi negativi. Anche le numerosissime ricerche che hanno documentato, con le tecniche di imagining ottenute con la risonanza magnetica o altri metodi simili, anormalità anatomiche in varie regioni del cervello, tra cui la corteccia prefrontale, l’ippocampo e l’amigdala, ci dicono ben poco sulle cause della depressione. Come sottolinea Rajkowska (1999), autore di una delle più citate ricerche attestante deficit nelle corteccia prefrontale nei pazienti depressi, le evidenze empiriche raccolte individuano un’associazione fra alcuni danni cerebrali e la depressione, ma non dimostrano che i danni cerebrali precedono e predispongono le persone alla depressione. Possono, al contrario, essere una conseguenza. Le ricerche non permettono neppure di escludere che i cambiamenti morfologici osservati nelle persone depresse siano il risultato dell’assunzione per periodi prolungati di farmaci antidepressivi.
I risultati che hanno avuto una risonanza maggiore negli USA riguardano l’efficacia del Prozac e degli altri SSRI e i loro effetti secondari così come sono emersi dai test clinici in doppio cieco. Si tratta di risultati davvero sconcertanti. Presentati come miracolosi, questi farmaci, per lo meno nel trattamento della depressione, si sono rivelati di non molto superiori all’effetto placebo. Visti nel loro complesso i SSRI non appaiono superare più del 10% il placebo e sono falliti in poco meno di metà dei test. Non sono cioè risultati superiori all’effetto placebo soprattutto nei test più attendibili, quelli con “active placebo”. Questi test usano tipi di placebo che simulano alcuni degli effetti collaterali degli antidepressivi (Moncrieff et al., 2004). Lo stato dell’arte è così sintetizzato da Moncrieff e Kirsch (2005), che hanno condotto in prima persona alcune ricerche sull’efficacia dei SSRI: «Sebbene molti test abbiano riscontrato che gli antidepressivi sono superiori al placebo, molti altri hanno dimostrato il contrario, compresi alcuni fra i più ampi e accreditati come quelli del Medica! Research Counci! e del Nationa! lnstitute for Menta! Health» (p. 156). Il dato più preoccupante riguarda gli effetti collaterali dei SSRI: questi antidepressivi producono impotenza e, soprattutto per i pazienti con grave depressione, aumentano il rischio di comportamenti violenti e di suicidio. Da una ricerca condotta nel 2002 emerge che la prevalenza di disfunzioni sessuali è simile in rutti gli antidepressivi che appartengono alla famiglia dei SSRI e oscilla fra il 36 e ìl 43% . La discussione sui rischi suicidari dei SSRI era già iniziata nel 1990 con un art colo di Teicher. Healy (2004) sostiene e documenta la tesi che la Eli Lilly già nel 1986 sapeva che i pazienti trattati cori Prozac tentavano il suicidio con più frequenza di quelli trattati con altri farmaci e con placebo. Dimostra anche, dati alla mano, che la percentuale di suicidi dei pazienti trattati con Prozac e gli altri SSRI è significativamente superiore a quella dei pazienti a cui è stato somministrato unicamente il placebo.
Le case farmaceutiche, sempre secondo Healy (2004), conoscevano gli effetti collaterali, anche letali dei SSRI ma li avrebbero taciuti, avrebbero manipolato i risultati delle ricerche in diversi modi , alcuni dei quali documentari. La produzione dì psicofarmaci si configura alla luce dei dati riportati da questa letteratura come un settore industriale con comporta menti ai limiti della legalità, se non addirittura perseguibili penalmente. Anche l’establishment accademico psichiatrico rivela comportamenti inquietanti. Secondo Healy (2004) almeno il 50% delle pubblicazioni accademiche internazionali sulle terapia farmacologiche sarebbero ghostwriten, in altri termini gli articoli sarebbero scritti da agenzie specializzate capaci di imitare persino lo stile dell’aurore e sottoposte al vaglio di quest’ultimi a prodotto finito. E ancora peggio: di molte ricerche che compaiono sulle riviste psichiatriche internazionali più prestigiose gli autori non controllerebbero i dati grezzi, raccolti ed elaborati statisticamente dalle case farmaceutiche.
Se questi sono dati controversi, è invece sicuro che, dei 38 test considerati dalla Federal Drug Administration (FDA) probanti l’efficacia dei SSRI, 36 furono pubblicati su riviste internazionali. Soltanto 14 dei 36 test che dimostravano, sempre secondo la FDA, l’inefficacia dei SSRI furono pubblicati. Inoltre, in contrasto con le valutazioni dalla FDA, 11 dei 14 test pubblicati riportarono i risultati in modo tale da dare l’impressione che si trattasse di “risultati positivi” (Greenberg, 2010, p. 204).
Di fronte a questi dati non stupisce che le Big Pharma, la psichiatria accademica e la stessa Federal Drug Administration siano oggetto di attacchi. Come osserva Crews (2007) «le Big Pharma spendono in tutto il mondo 25 miliardi di dollari all’anno e a Washington ci sono più lobbisti delle case farmaceutiche che legislatori» (p. 10). Le loro responsabilità, per quanto gravi, non bastano però a spiegare come mai farmaci tanto poco efficaci, e addirittura dannosi, siano stati salutati dal mercato con tanto entusiasmo, né perché la tristezza così come altre emozioni, tra cui la timidezza, siano oggetto ormai da anni di un processo di medicalizzazione. Gli stessi comportamenti poco etici che sembrano essere diffusi nel mondo accademico psichiatrico meritano considerazioni più generali.
Siamo di fronte, in Occidente, a cambiamenti culturali nel modo con cui le persone vivono il rapporto con il proprio corpo. Così come si diffonde la chirurgia estetica, così come è diventato concepibile cambiare sesso, alla stessa stregua manipolare le proprie emozioni può essere un obiettivo desiderabile per se stessi e per gli altri. Anche il mondo accademico è cambiato. Come è stato lucidamente messo in evidenza da Steven Shapin (2008) il modello ottocentesco di scienziato e accademico si sta estinguendo. I professori universitari sono sempre più manager impegnati a cercare fondi per la propria Università. Paradossalmente i ricercatori più “disinteressati” sono inseriti nelle grandi aziende, perché sono gli unici che non devono individuare finanziamenti per le ricerche. Le collusioni fra mondo degli affari e dipartimenti universitari diventano quindi sempre più frequenti.
Ma tralasciamo queste considerazioni più generali. Quello che qui mi importa sottolineare è che quasi trent’anni di incontrastato dominio della psichiatria biologica in tema di depressione ci lascia una pesante eredità: l’assenza di criteri diagnostici condivisi e addirittura di categorie diagnostiche che permettano di distinguere la depressione dalla tristezza. Un merito del DSM, e il motivo principale che ne ha decretato il successo, è stata la sua capacità di offrire criteri che permettano ai clinici di diagnosticare i pazienti in modo consensuale, una premessa indispensabile per lo sviluppo della conoscenza in quest’area. Non è così per la depressione. Sotto l’etichetta comune di “depressione maggiore” confluiscono ora sia persone tristi per perdite e altri eventi negativi, sia pazienti molto diversi tra loro. Non stupisce quindi che i risultati di una ricerca siano di regola smentiti da altre, perché l’ipotesi più probabile è che si riferiscano a persone con condizioni cliniche molto diverse. I così pochi risultati definitivi, a cui la stessa psichiatria biologica è approdata, sono probabilmente da attribuirsi anche a campioni di soggetti non uniformi. Per queste ragioni in questo numero monografico abbiamo cercato di non far riferimento alle categorie del DSM e, come sta accadendo nella letteratura sull’argomento, abbiamo introdotto termini come depressione “grave”, “cronica” o ci siamo rifatti a categorie che erano diventate obsolete come “psicosi maniaco-depressive” o “melanconia”.
Di certo la letteratura critica che sta fiorendo, soprattutto negli USA, ormai da dieci anni autorizza gli psicologi e gli psicoterapeuti a ricominciare a pensare ad una tra le sindromi più drammatiche ma anche più affascinanti. È una psicopatologia che solleva molti intriganti interrogativi a cui la serotonina non sa rispondere. Se anche l’ipotesi della carenza di serotonina avesse ricevuto maggiori conferme, o se i farmaci SSRI si fossero rivelati efficaci, di certo non disporremmo di qualche risposta in più agli enigmi che la depressione apre. Perché ad esempio la depressione è ciclica? Come è noto la depressione grave tende a recedere autonomamente e a ripresentarsi dopo un periodo di totale o parziale remissione. I farmaci, nella migliore delle ipotesi, accelerano una remissione che il naturale decorso della malattia prevede. Come mai le persone inclini alla depressione, che sono caratterizzate da un’autostima bassa anche nei periodi di benessere, sono state in grado di creare tra i più grandi capolavori dell’arte? Come è noto molti fra i più grandi artisti di tutti i tempi hanno conosciuto periodi di depressione clinica. Questi interrogativi riguardano gli psicologi e gli psicoterapeuti di tutti gli orientamenti. Ma ce ne sono altri che attendono risposta proprio dai terapeuti della famiglia. Quali sono ad esempio le dinamiche di coppia ricorrenti fra i pazienti depressi e i loro partner? Che pattern caratteristici riscontriamo nelle famiglie di origine dei pazienti depressi? È possibile individuare un modo particolare con cui si organizza il significato in queste famiglie? Quali differenze riscontriamo nelle dinamiche familiari con forme di depressione diverse? Sono emersi specifici patterns di interazione familiare quando ad essere depresso è un bambino o un adolescente? Quali strategie terapeutiche sono più adatte con i pazienti depressi e le loro famiglie?
Le uniche ricerche che hanno finora gettato luce sulla ciclicità della depressione mettono in luce meccanismi interpersonali. Sebbene condotte da ricercatori estranei alle psicoterapie sistemiche, queste ricerche, recentemente riassunte da Pettit e Joiner (2006), sembrano accreditare l’ipotesi, spesso avanzata dai terapeuti sistemici, che il sintomo abbia una funzione autocurativa. Esse hanno infatti concordemente riscontrato che nei pazienti depressi cronici, cioè quei pazienti che presentano depressioni cicliche, i sintomi depressivi chiudono un ciclo di comportamenti interpersonali, di cui il futuro paziente è stato protagonista, caratterizzati da alta conflittualità e aggressività. La depressione avrebbe quindi un valore adattivo per il paziente perché, mettendo drasticamente fine a comportamenti interpersonali negativi, che amplificano conflitti e provocano rotture, porrebbe le premesse per il ristabilimento delle relazioni significative e per la guarigione. Gli autori di queste ricerche assegnano funzioni sensibilmente diverse ai sintomi depressivi. Ad esempio, per Hammem (1999), si tratta di veri e propri meccanismi di arresto della conflittualità (breaking mechanism), mentre per Price e Gardner ( 1999) sono espressione di «una strategia involontaria di subordinandone». I depressi, nel momento in cui entrano nella psicopatologia conclamata, mandano, secondo questi autori, a rivali, superiori e partner messaggi di “non attacco”, che scoraggiano l’aggressività di questi, da loro precedentemente sollecitata, attraverso comportamenti aggressivi e provocatori. Secondo altri, la depressione funzionerebbe come una sorta di “segnale di allarme” che indica allo stesso paziente la necessità di cambiare rotta e invita gli altri a fare altrettanto. La disperazione è anche un’implicita richiesta di aiuto. Al di là delle funzioni sensibilmente diverse che questi autori attribuiscono ai sintomi depressivi, essi sono concordi nel sostenere che la depressione conclamata per lo meno inibisce i comportamenti interpersonali distruttivi e spesso avvia meccanismi relazionali riparativi. La depressione introdurrebbe quindi una modificazione potenzialmente positiva dei comportamenti interpersonali disruttivi del depresso, così come, secondo Bateson (1972), la sbornia, sarebbe una correzione delle insensate premesse dell’alcolizzato. Naturalmente, in entrambi i casi, il meccanismo correttivo tende a non durare a lungo. Per lo meno nelle depressioni croniche, la remissione dei sintomi riapre infatti un nuovo ciclo di comportamenti interpersonali negativi che provocano una ricaduta. Tutte queste ricerche mettono in evidenza come l’eliminazione del sintomo, se non è accompagnata da altri cambiamenti nella vita relazionale e individuale del paziente, difficilmente risolve il problema.
La funzione adattiva del sintomo depressivo e i rischi cui può dar luogo la sua eliminazione farmacologica è per altro suggerita dal risultato apparentemente paradossale che gli SSRI danno il loro peggio con le depressioni gravi. Sebbene un risultato del genere sembri strano, può essere spiegabile. La disperazione in cui il paziente cade, spesso in modo improvviso, gli sottrae coralmente le energie. La motilità risulta di conseguenza inibita: il paziente non è più in grado di agire e finisce a letto. L’aggressività indispensabile per mettere in arto comportamenti violenti ed un eventuale suicidio gli viene quindi sottratta tanto più i sintomi sono gravi. Non a caso il suicidio nelle depressioni si verifica di regola prima o dopo e non durante un episodio depressivo acuto. Se la depressione è adattiva anche perché inibisce l’aggressività, farmaci attivanti come·SSRI sono inevitabilmente pericolosi.
Insomma persino dalle ricerche sui SSRI emergono risultati che suggeriscono come anche una condizione tanto drammatica come la depressione conclamata non sia un’anomalia che può essere asportata a proprio piacimento. Al contrario, si tratta di una condizione il cui superamento richiede un processo di cambiamento che sicuramente coinvolge le relazioni interpersonali entro cui il paziente depresso vive. Numerose ricerche dimostrano che i sintomi depressivi sono messaggi con i quali, sia le persone sia molti primati non umani, chiedono di essere riammessi nel gruppo. Naturalmente il gruppo di cui questo numero monografìco più si occupa è quello familiare, anche se diversi contributi prendono in esame contesti di appartenenza e di cura più ampi.
Terapia Familiare, n. 94, 2010
[1] VALERIA UGAZIO: Dirertore Scientifico dell’European lnstitute of Systemic-Relational Therapy di Milano dove svolge la propria attività clinica e formativa. È inoltre Professore di Psicologia Clinica presso l’Università di Bergamo dove coordina il Dottorato di Psicologia