Ragazzi fragili
Massimo Recalcati
A proposito della relazione genitori e figli il nostro tempo sembra sostenere due imposture o, se si preferisce, due retoriche pedagogiche egualmente distorte.
La prima è quella delle regole. Esiste una vera e propria industria culturale che produce libri di ogni genere e specie che dovrebbero accompagnare i genitori nel loro dressage disciplinare del figlio. Il volto severo, oscuro e minaccioso della Legge è stato sostituito con quello più moderato e pragmatico delle regole. Una serie per ogni sequenza comportamentale. I manuali di “psicopedagogia” prêt-à-porter nordamericani, ma anche nostrani, ne sono infarciti: come fare per addormentare il proprio bambino, per farlo mangiare, per farlo studiare, per farlo socializzare. Questo nuovo impero della regola si associa solitamente a quello della medicalizzazione sospinta della vita: educare significa normalizzare e se un figlio dimostra di non corrispondere all’ideale positivo della normalità sarà immediatamente consegnato alla presa severa della diagnosi psichiatrica che, non a caso, la versione recente del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” sembra estendere a ogni livello dell’esperienza non negando a nessuno la sua etichetta (che è sempre una piccola etica, ironizzava Lacan): disturbi dell’appetito, dell’apprendimento, dell’attenzione, del sonno, dell’umore, eccetera. Il mito della regola e quello dell’uso inflattivo dell’etichettamento diagnostico si sostituiscono così al lavoro duro, paziente e incerto dell’educazione.
La seconda impostura dominante è quella del dialogo, dell’empatia e della comprensione reciproca tra genitori e figli.
Chi oggi riuscirebbe, senza essere osservato con sospetto, a introdurre il dubbio che forse il dialogo tra genitori e figli è una chimera, una illusione, che dialogare con i propri figli si rivela molto spesso un’attività del tutto inconcludente? Consiglio a questo proposito la lettura attenta di Pastorale americana di Philip Roth dove gli sforzi generosi e inesausti del mitico “svedese” di dialogare con la propria figlia adolescente si rivelano votati fatalmente allo scacco. Chi oggi avrebbe il coraggio di ricordare che più che comprendere i propri figli il vero dono della genitorialità è quello di rispettare il loro segreto, ovvero la particolarità insostituibile, talvolta ai nostri occhi bizzarra e, appunto, del tutto incomprensibile, del loro desiderio? Desiderio che non può che manifestarsi, sé è davvero tale, ovvero se è il desiderio del figlio, come una deviazione anarchica dal “piano della famiglia”, come il giovanissimo Giacomo Leopardi lamentava nella sua accorata lettera al padre Monaldo. Lo sappiamo per esperienza: molto spesso il dialogo coi figli non mira tanto ad ascoltare davvero la parola del figlio, ma a volerlo condurre sulla via che noi riteniamo la più giusta. La responsabilità educativa non può dunque essere ridotta né alla determinazione prescrittiva delle regole (ivi compresa la classificazione del comportamento deviante da tali regole come necessariamente patologico), né al perseguimento della comprensione empatica che spesso significa assimilare la vita del figlio ai progetti dei genitori. La via è assai più stretta e scomoda e nessun manuale potrà dispensarci dalle difficoltà. Questo significa fare spazio alle possibilità della caduta, dello smarrimento e del fallimento.
Non dovremmo, infatti, come genitori mai dimenticarci che ogni figlio è, in quanto erede, un figlio eretico, cioè diverso da come noi ci attendavamo che fosse. Il grande dono della genitorialità non è amarlo nonostante questa differenza, ma proprio a causa di questa differenza.
Repubblica 09 maggio 2017 sez.
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Commento
Non solo ragazzi fragili, ma anche genitori insicuri, ansiosi, incapaci. O meglio, così si sentono i genitori di oggi, a fronte di modelli genitoriali pubblicizzati, di regole psicopedagogiche, propagandate in svariati corsi di formazione alla genitorialità e in una vastissima produzione libraria. Fenomeno sociale, a mia memoria, cioè da quando sono diventato padre nel ’70, apparso timidamente in quegli anni e poi sempre più diffuso fino ai nostri giorno con la spinta di una moltitudine di psicologi pronti ad insegnare regole su come si fa il genitore. Compreso me agli inizi del mio interessamento per la psicologia.
Son caduto anch’io nella trappola. Allora fece la comparsa il manuale del dottor Spock, eccentrico pediatra americano, Il bambino, come si alleva, come si cura, diffuso in 40 milioni di copie, comprato e poi riposto senza rammarico in libreria con la nascita della mia seconda figlia. La realtà non era quella immaginata e descritta, la mia seconda figlia era diversa dalla prima e non si potevano seguire le stesse regole, come fossero i dieci comandamenti. Così lentamente, senza corsi di apprendimento e senza altri manuali, capii che ogni figlio è unico, ogni famiglia è unica, così come ogni padre e ogni madre sono unici. Unici per storia personale, per famiglia di origine, per formazione mentale e per le relazioni interpersonali in cui siamo coinvolti. Perciò le pretese regole sono vuote, inefficaci e forse dannose. Come poi il lavoro di psicoterapeuta mi ha insegnato dal vivo, indossando la veste dell’artigiano che nella sua bottega vede e costruisce sempre pezzi unici con l’arte e con l’esperienza.
Arte ed esperienza necessarie nell’educazione dei figli (dal lat. e-ducere, tirar fuori quello che è già dentro). L’arte è la “navigazione a vista”, come ho imparato diventando vecchio. Non ci sono mappe e manuali, perché si naviga sempre verso l’ignoto, quello che serve è acuire la “vista”, cioè l’osservazione di come si è e si sta nella relazione con i figli e non tanto di quanto si parla con i figli.
E il cuore del problema è la relazione fra genitori e figli. E l’anima della relazione intima è l’amore. Questa è la speranza che, comunque, nonostante tutti gli errori le incertezze, le cadute, i fallimenti che si possono fare e che certamente si fanno e si faranno, ci salva dall’ansia e dai sensi di colpa. E’ l’amore che ci salva, non tanto l’empatia, la vicinanza o l’essere “amici” dei propri figli, come adesso si sente dire in giro da certi genitori giovanilisti.
Di rincalzo però l’altro problema è: cos’è amore e come arriva e cosa ai figli. Tutti i genitori affermano con sicurezza che amano i figli, ma non si chiedono (cosa difficile) se i figli si sentono amati. Una cosa è dare amore, altra cosa è sentire amore. Bisognerebbe essere capaci di entrare nella testa e nel cuore dei nostri figli. Cosa impossibile, ma è però possibile imparare l’arte del vivere insieme ai figli, crescere con i figli (titolo di un bel libro di Massimo Ammaniti, psichiatra psicoanalista). E crescere con i figli vuol dire legarsi ad ogni figlio con una corda invisibile che ci rassicuri che facciamo un cammino assieme, che ci impedisca di distanziarci troppo con il rischio di non capirsi. Se si scioglie la corda o si rompe, si rompe una relazione vitale. Un legame, se è sano, se è elastico ci accompagna per tutte le età della nostra vita, fino a quando i genitori anziani sentiranno, in una inversione di ruoli, il bisogno di sentirsi amati dai figli con la stessa tenerezza con cui loro li hanno amati prima.
Io con mio padre non ho avuto una grande comunicazione intima, profonda, non mi sono sentito empatico, vicino, ma nonostante tutto ho sentito amore.
Solo una volta mio padre mi si è rivelato nella sua intimità. Quando alcuni mesi prima di morire in una tiepida serata d’estate, seduti uno accanto all’altro sul poggiolo di casa, rompe il silenzio e inaspettatamente mi dice: “Non dimenticarti di me”. Un messaggio, un appello, un programma di vita, una eredità preziosa.
E questo mi è bastato per capire e amare mio padre e sentirlo ancora presente!