Recalcati, conversione all’infanzia di Federico Leoni

Conosciamo tutti il ritornello. La nostra è una società di eterni adolescenti, addirittura di eterni bambini. L’età adulta resta confinata all’orizzonte, inafferrabile e ormai indesiderabile. Peter Pan è il santo patrono di nuove generazioni di sdraiati.

Naturalmente chi parla degli sdraiati immagina di starsene in piedi, ben dritto, in mezzo a un paesaggio molle, nebbioso, orizzontale. Dimostra una certa fierezza per questa sua stazione eretta. Eppure non è anche questo sogno di essere grandi e di grandezza, un sogno da bambini o forse il sogno da bambini per eccellenza? […]

Partiamo dal libro dedicato che Massimo Recalcati dedica a Sartre. Ha un titolo che è un manifesto. Ritorno a Jean-Paul Sartre. […]

Il sottotitolo del ritorno a Sartre di Recalcati suona “Esistenza, infanzia, desiderio”. E dei tre lemmi, “infanzia” è senz’altro quello decisivo. Il Sartre di Recalcati è il pensatore dell’infanzia, è il filosofo che per primo assegna dignità filosofica all’età dell’infanzia, e anzi assegna all’età dell’infanzia un compito decisivo. 

È Sartre a dire che l’infanzia è un’età insormontabile. Sartre sembra vicinissimo a Freud, qui. La psicoanalisi in fondo ha assegnato all’infanzia una posizione altrettanto decisiva. Certi primi incontri lasciano il segno. Certe tracce si imprimono indelebilmente. Certi percorsi si disegnano e si dispongono più o meno silenziosamente a veder passare per quelle strade tutta una vita a venire. Ma è in un altro senso che Sartre pensa che l’infanzia sia un’età decisiva. Su questo punto, Sartre formula una specie di mantra, chiarissimo eppure enigmatico. Noi siamo, dice, ciò che facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi. 

È una frase che attraversa i testi sartriani in maniera martellante. Ma come intendere questo nodo? Dobbiamo fare attenzione, intanto, a non intenderlo in maniera dialettica. Sartre sta dicendo che noi facciamo continuamente qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di noi. Il che in fondo significa, e guardare questo fondo non è semplice, anzi richiede di smantellare tante abitudini, che gli altri non smettono mai di star facendo ciò che hanno fatto di noi. Il passato non smette mai di stare accadendo. È per questo che il presente non smette mai di riprenderlo, di farne il proprio orizzonte, il proprio compito. L’infanzia è un compito, per Sartre. È il contrario di Freud.

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Al posto del trauma, segno puntiforme su una pagina bianca, incisione su una superficie immobile, dobbiamo immaginare una linea, uno sviluppo, un’insistenza che non cessa mai di insistere. Un seme, magari cattivo, alla Nick Cave, di cui però è interminabile lo sbocciare, insistente e sempre variato, sempre variato ma sempre insistente, inconfondibile. Ogni nuovo incontro è un incontro con un’altra linea, con un altro seme che a sua volta germoglia lentissimamente e incessantemente. È in quel nuovo incontro che il vecchio incontro non smette di accadere. È nel segno di quest’altro seme che il primo seme non smette mai di sbocciare. Due linee che non smettono mai di tracciarsi, e che a un certo punto iniziano a scriversi l’una sull’altra, l’una nell’altra, l’una grazie all’altra. Non distinguiamo più il momento della scrittura e il momento della lettura. Scrivere è sempre un riscrivere, e anche leggere è sempre uno scrivere e un riscrivere.

Infanzia, in altri termini, non è un tempo uno, in cui qualcosa è stato scritto, e a fronte dell’infanzia non c’è un tempo due, in cui qualcosa viene letto in ciò che è stato scritto. Infanzia è il nome dell’incrocio. Infanzia è un tempo che è un po’ più di un tempo uno benché un po’ meno di un tempo due. Infanzia è il tempo che sta a metà tra ciò che gli altri hanno fatto di noi e ciò che noi facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi. Infanzia è il punto di indiscernibilità tra i due versanti, non uno dei due versanti. Il nostro sguardo più o meno dialettico solidifica, identifica, reifica, e finisce per credere che ci sia davvero qualcosa che gli altri hanno fatto di noi, senza che noi ci fossimo, e qualcosa che noi facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi, senza che gli altri ci siano. Invece tutto ciò che accade, accade nel mezzo. Ogni evento è un evento intermedio.

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Commento

“Noi siamo ciò che facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi”.

È il nucleo del pensiero di Sartre, riletto reinterpretato in chiave psicoanalitica da Massimo Recalcati, che a sua volta perciò si chiede e interroga:

” è possibile per il soggetto essere libero se la sua vita è costituita dall’Altro? Come dobbiamo ripensare una libertà che non escluda il destino? Cosa significa scegliere la propria vita se la nostra prima vocazione è stata scelta dagli Altri?”[1]

E ancora, è possibile riscrivere il libro della propria storia infantile scritto da altri e conseguentemente quella successiva e quella attuale? E specialmente se quanto scritto è stato scritto con segni forti, quasi indelebili, come sono i traumi, le ferite sanguinanti, le false verità e i segreti familiari?

La risposta è una scommessa, perché dipende da ciò che sappiamo leggere e conseguentemente “da ciò che facciamo di quello gli altri hanno fatto di noi”, e possiamo fare, se c’è consapevolezza di quanto è stato scritto e fatto dagli altri. Cosa non semplice perché “il nostro sguardo più o meno dialettico solidifica, identifica, reifica, e finisce per credere che ci sia davvero qualcosa che gli altri hanno fatto di noi”, o almeno di quello che noi crediamo che gli altri hanno scritto su di noi. E le nostre credenze, i nostri pre-giudizi[2] sommari precludono, travisano una visione certa di quanto e come possa essere successo, specialmente poi se si tratta di familiari.

Ma se si è in due è meglio perché l’altro è uno specchio che può riflettere un’altra immagine dialettica della realtà, forse più realistica e così aiutare a capire e comprendere quanto scritto nel nostro libro dell’infanzia.

È quello che succede nel lavoro di psicoterapia: saper vedere, saper scegliere, saper decidere. Ma basta essere solo in due? o è ancor meglio che siano presenti anche quelli che hanno scritto sul nostro libro di infanzia anche senza volerlo e senza saperlo?

Allora è meglio una psicoterapia familiare, perché se cambiamento deve esserci è un cambiamento di tutto il sistema delle relazioni familiari, perchè “Sono i resti indimenticabili, i traumi, le parole dell’Altro, le sue impronte a contrassegnare in modo indelebile ogni processo di soggettivazione”[3]. Solo così possiamo riconoscere le parti positive e negative dell’eredità inconscia trasmessaci dalla famiglia con cui poter fare i conti, se riconoscerci cioè solo debitori o anche creditori. Da qui può iniziare la rilettura della “stratificazione di tracce e traumatismi che restano vivi anche nella vita adulta, ma, soprattutto, l’infanzia assunta come un compito: quello della sua eredità singolare nel processo di soggettivazione.[4]

 

 

[1] Massimo Recalcati, Ritornare a Jean Paul Sartre, pag. IX

[2]  In G. Cecchin, G. Lane, W.A. Ray – Verità e pregiudizi – Un approccio sistemico alla psicoterapia – Cortina Editore

Tutti gli esseri umani portano con sé una serie di parole che usano per giustificare le loro azioni, opinioni ed esistenze. Sono le parole con cui esprimiamo elogi per gli amici e disprezzo per i nemici, i progetti a lungo termine, i dubbi più profondi e le migliori speranze. Sono le parole con cui raccontiamo, talvolta guardando al futuro e talvolta rivolgendoci al passato, la storia delle nostre vite. Chiamerò queste parole “lessico finale” di una persona. (p. 73)

[3] Massimo Recalcati, Ritornare a Jean Paul Sartre, pag. X

[4] Massimo Recalcati, Ritornare a Jean Paul Sartre, pag. 4