Scegli tu come parlare ai tuoi morti – – – Giuseppe Basile

Scegli tu come parlare ai tuoi morti[1]

 Giuseppe Basile

Ma i morti parlano? e come parlano? In tanti modi, e ognuno può scegliere il suo.

Può sembrare un paradosso, una assurdità, una invenzione letteraria. Ma parlare è comunicare e si può comunicare con il silenzio e nel silenzio. Soprattutto con i nostri morti. Se non li abbiamo dimenticati, essi sono in noi con la memoria che hanno lasciato, con la storia che abbiamo vissuto con loro.

Ma quando parliamo con i nostri morti, essi non sono fuori di noi, ma sono in noi, sono presenti in noi. La morte è una assenza che si fa presenza. Mio padre e mia madre non sono fuori, seppelliti in un luogo e in un’urna, ma sono vivi in me. Tanto che Gesù a chi gli chiedeva di poterlo seguire e gli chiedeva, prima, un tempo per seppellire suo padre, gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Matteo 8, 18-22).

Risposta enigmatica, quella di Gesù, perché se i morti sono morti e seppelliti, i segni esterni della sepoltura sono freddi, non emettono suoni, parole, sono morti definitivamente, sono assenti. Ma Gesù specifica che chi seppellisce un morto è morto anche lui. Gesù invece parla di vita. Se uno non capisce che chi è morto non è morto definitivamente, ma in qualche modo è ancora presente, se noi lo vogliamo, se rispondiamo al suo appello implicito: “Portatemi con voi[2], “Mi raccomando, non ti dimenticare di me[3], se c’è “una corrispondenza di amorosi sensi e spesso/per lei si vive con l’amico estinto/ e l’estinto con noi[4]. Sembra un paradosso che bisogna morire per essere vivi, che bisogna abbandonare i morti perché possano essere presenti e vivi nella mente di chi riconosce di essere stato amato.

La corrispondenza di amorosi sensi si attiva però se c’è stata una eredità, un lascito, che diventa segno prezioso di una presenza silenziosa.

Ma questo silenzioso processo è contenuto e si sviluppa in una storia di vita familiare, fatta di ricordi, di scambi, di legami vitali, di sentimenti, di amore, che, solo se riconosciuti, favoriscono attaccamenti forti e sicuri. Storia familiare che viene pensata e ricostruita con i segni depositati nella nostra memoria, che però con il tempo rischia di vacillare, di perdere pezzi, se non è tenuta viva.

Storia familiare però che è sempre mancante, nonostante gli sforzi che si fanno per ricostruirla, perché è storia di relazioni che si intrecciano, che si disperdono, che non si capiscono. In tutto questo non c’è niente di automatico e di scontato. È tutto un divenire in un tempo, un intrecciarsi di relazioni che facendo sistema possono portare ad esiti diversi. Non solo amori e riconoscimenti di valore, ma anche sordità, rancori, indifferenza, misconoscimenti, freddezze, abbandoni, richieste di risarcimenti. Assenze che non diventano presenze. Si perde così anche la “sacralità delle cose” lasciate che restano mute o destinate a perdere il valore aggiunto e ridotte ad essere viste solamente come cose e oggetti di scambio o ingombranti.

Ma aggiungerei che l’assenza dei nostri morti si fa presenza viva, non solo negli oggetti lasciati nei luoghi, nella casa, ma soprattutto con l’eredità che ci lasciano, con quella parte di sé positiva che si deposita in noi senza saperlo, e che dopo con un lavorìo silenzioso riconosciamo e facciamo nostra, nuova stella polare nella navigazione nel mare della vita.

E’ il valore del frammento, o meglio, del dettaglio, di cui parla Recalcati, che si fissa nella nostra memoria e che ci interroga, che va decifrato e che è carico di nuove informazioni, anche se apparentemente nascoste.

Solo così i nostri morti non sono morti, ma vivono, in noi come compagni di viaggio rassicuranti. Morti silenziosi che non parlano, che non sono seduti accanto a noi, e di cui se non c’è cura e memoria, sono morti definitivamente. Sta qui la verità apparentemente incomprensibile delle parole dure di Gesù: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. “L’ereditare coincide con il lutto come lavoro, è un lavoro del lutto. E cos’è un lavoro del lutto? È riuscire a portare la memoria alla potenza dell’oblio; dimenticare i morti non perché li abbiamo cancellati dalla nostra vita, ma perché li abbiamo fatti nostri e solo in questo senso possiamo dire che abbiamo potuto dimenticarli, che abbiamo potuto lasciarli morire, lasciarli essere davvero morti”. (Recalcati, Il complesso di Telemaco, pag. 130)

Lo confesso, quando mi trovo in qualche situazione difficile, e devo fare una scelta, spesso chiedo a mia madre cosa farebbe lei al mio posto. Comincia così un dialogo interiore e alla fine devo riconoscere, specie in un contesto familiare, che la sua risposta è quella più giusta.

[1] Francesca Bottari in  https://www.facebook.com/silvanamonica.masullo
[2] Massimo Recalcati, La luce delle stelle morte, pag. 123
[3] Il ricordo di mio padre
[4] Foscolo, I sepolcri