Scopriamo la vitalità dell’ adolescenza senza farne sempre una malattia di Gustavo Pietropolli Charmet

Scopriamo la vitalità dell’ adolescenza senza farne sempre una malattia

di Gustavo Pietropolli Charmet

Questa generazione di adolescenti è destinataria di nerissime profezie e giudizi allarmati. La cultura degli adulti sembra convinta che sia condannata ad una qualità di vita futura molto peggiore di quella goduta dai padri e dai nonni. Meno lavoro, pensioni fatiscenti, alloggi a costi inavvicinabili ed un intero pianeta da riparare dopo le profanazioni ed i vandalismi delle generazioni precedenti. Anche le diagnosi che gli adulti fanno del loro stato di salute mentale e del loro sentimento etico appaiono preoccupate. Spesso nei confronti degli adolescenti attuali si invoca il ripristino di paletti e norme severe che sarebbero state divelte e abrogate. La questione è di importanza educativa cruciale e coinvolge il settore delle politiche giovanili, della riforma della scuola, della riorganizzazione dei servizi preventivi e della salute mentale.

È infatti diventato arduo per gli adulti che interagiscono col mondo giovanile comprendere il senso e la direzione delle novità che caratterizzano il loro modo di interpretare il processo adolescenziale. Non si tratta solo del prevedibile cambiamento di mode, di idoli, di stili di vita: il cambiamento sembra coinvolgere questioni molto più profonde e concernenti la qualità delle passioni che sperimentano. I giovani non hanno più paura degli adulti e delle loro istituzioni e non sembrano alle prese con forti sentimenti di colpa nei confronti dei valori e delle norme convenzionali. Gli adolescenti ad esempio non riconoscono alla scuola un significato simbolico ed istituzionale e la utilizzano come un servizio o un centro di socializzazione e scambio culturale. Ciò spoglia i loro docenti della attribuzione al loro ruolo di una autorevolezza prestata a priori in quanto rappresentanti del potere adulto e delle tradizioni culturali del paese.

La reazione del corpo docente alla proposta relazionale proveniente dalle classi in cui insegnano viene generalmente interpretata come il sintomo di una grave demotivazione, di una generale disaffezione nei confronti dell’ apprendimento e di una insolente mancanza di rispetto nei confronti della scuola. È solo uno dei mille esempi dei cambiamenti in corso e della difficile interpretazione da effettuare. Per i ragazzi infatti è del tutto “normale” ciò che fanno o non fanno a scuola: il ruolo di studente non gestisce più le loro passioni e quindi trattano ciò che concerne la scuola come faccenda di scarso interesse emotivo. Gli adulti invece parlano di una nuova “emergenza educativa”, come se fosse in corso una attività sovversiva da parte di una moltitudine di giovani, che in realtà chiedono alla scuola di sviluppare un maggior interesse educativo nei loro confronti ed una più alta competenza sul versante della loro vita affettiva, relazionale e di produzione creativa. Sotto l’ etichetta di “bullismo” si inquadra così uno sciame incoerente di comportamenti goliardici, scherzosi, dispettosi che i ragazzi considerano facenti parte della normalità della vita scolastica. La vita di gruppo rischia di essere considerata la scellerata orgia di un branco selvatico e pericoloso. Per gli adolescenti invece i legami affettivi e sociali con i coetanei sono sacri, sia quelli virtuali che quelli concreti. La difficoltà degli adulti a capire il significato affettivo profondo che i ragazzi danno alla conquista della notte, al bisogno di rimanere sempre in contatto virtuale, alla nuova relazione col corpo trafitto di piercing e firmato da tatuaggi policromi li sospinge a convocare sulla scena della relazione educativa le discipline “forti”; la psichiatria, la criminologia, gli esperti di devianza giovanile ai quali chiedere una diagnosi e, se possibile, un trattamento delle “nuove emergenze”. Il rischio della patologizzazione dell’uso che i ragazzi fanno di Internet, del consumo di musica, della loro dipendenza dal gruppo di amici, rischia di compromettere la relazione fra mondo giovanile e cultura degli adulti. I ragazzi sono alla ricerca di adulti competenti, non di esperti che presumano di sapere senza chiedere: hanno bisogno di adulti che non si spaventino delle novità, che non si illudano di cavarsela con le diagnosi e le etichette fuori tempo, che abbiano una vera passione educativa. Quando ne incontrano uno non se lasciano sfuggire e organizzano la grande festa dell’ incontro col mentore, la guida, l’ adulto che sa che si può uscire sani e salvi dal labirinto dell’adolescenza.

(L’autore è psicoterapeuta ed esperto di disagio giovanile)

Repubblica — 23 ottobre 2010  

 

  Commento

Giuseppe Basile

E un maestro domandò: parlaci dell’Insegnamento.

Ed egli disse:

Nessuno può insegnarvi nulla, se non ciò che

in dormiveglia giace nell’alba della vostra conoscenza.

Il maestro che cammina all’ombra del tempio, tra i discepoli,

non dà la sua scienza, ma il suo amore e la sua fede.

E se egli è saggio non vi invita ad entrare

nella casa della sua scienza,

ma vi conduce alla soglia della vostra mente.

L’astronomo può dirvi ciò che sa degli spazi,

ma non può darvi la propria conoscenza.

Il musico vi canterà la melodia che è nell’aria,

ma non può darvi il suono fissato nell’orecchio, né l’eco nella voce.

E il matematico potrà descrivervi regioni di pesi e di misure,

ma colà non vi potrà guidare.

Giacché la visione di un uomo non impresta

le sue ali ad un altro uomo.

E come Dio vi conosce da soli,

così tra voi ognuno deve essere solo a conoscere Dio,

e da solo comprenderà la terra.

Gibran (1981)

Dodici anni fa Gustavo Pietropolli Charmet scriveva questo articolo e non so se la sua diagnosi, che condivido, sullo stato di salute della scuola sia ancora quella o sia peggiorata.

Sono stato insegnante per quasi trent’anni dalla fine degli anni sessanta fino a quando mi sono arreso all’inizio degli anni novanta per cambiare mestiere e professione, quello di psicoterapeuta, potendolo fare con la maia seconda laurea in psicologia. E se l’ho fatto è perché mi sentivo alla fine fuori posto, in un posto sbagliato. Sia perché erano cambiati gli studenti sia la struttura scolastica. Certamente cominciava a cambiare e sempre più velocemente la scuola che si trasformava in una azienda quasi produttivistica, anche nei nomi, tanto che i vecchi presidi erano diventati “dirigenti”.

Mi viene sempre in mente quando parlo di scuola e di insegnanti quello che diceva Freud sui tre mestieri più difficili, se non impossibili: essere educatori, essere psicoterapeuti ed essere governanti. E perché è difficile essere insegnante nella sua funzione di educatore? Perché se insegnare vuol significare solo saper trasmettere nozioni, tecniche, finalizzate ad un apprendimento di un saper fare pratico, educare invece è prima di tutto una relazione interpersonale in un contesto di incontro personale e di gruppo, la classe. Ed essere in relazione è un dare e un ricevere, un mettere in gioco se stessi, un definirsi: chi sono io e chi sei tu. Se l’insegnante si definisce implicitamente o anche a volte esplicitamente: Io sono quello che sa e tu sei quello che deve apprendere è già un fallimento. Nella relazione insegnante-alunno ci sono due desideri complementari che si incontrano, quello dell’insegnante e quello dell’alunno.

 Etimologicamente la parola educare viene dal latino e-ducere. un tirar fuori quello che uno ha già dentro. Ognuno di noi non é una tabula rasa, ma una pagina già scritta, anche prima di nascere, di un libro su cui si continuerà a scrivere nel corso della vita. E dentro questo libro c‘è scritto anche un patrimonio emozionale sommerso, domande, desideri, ferite, curiosità, abbandoni. Insomma c’è già in fermento in ognuno di noi una piccola personale teoria del mondo con cui si confronta e si accresce continuamente con il mondo esterno degli altri. Tanto che un freddo addestramento obbligato ognuno lo sente inutile, mortificante, incomprensibile. Così si spegne lentamente la curiosità di sapere, di conoscere, di confrontarsi con gli altri …. e di imparare.

Io ho avuto la fortuna durante i miei studi filosofia di aver studiato pedagogia senza saperlo e senza volerlo con un grande pedagogista, il prof Aldo Agazzi che ha acceso la mia curiosità educativa. Da lui ho imparato che ogni alunno è unico con la sua storia e solo conoscendo questa storia si conosce l’alunno.

Io per necessità a venticinque anni comincio ad insegnare utilizzando quanto appreso con le linee guida innovative apprese con Agazzi e il rifiuto della impostazione scolastica dei miei anni scolastici dalle elementari al liceo classico.

Così nel mio lungo passato di insegnante la direzione educativa che ho cercato di seguire con i miei studenti è stata quella di suscitare la curiosità di capire e di apprendere gli eventi che ci circondano e di cui siamo testimoni. E quando ho capito che la passione educativa stava scemando, sono andato in pensione e ho preferito, potendolo fare, impegnarmi in un’altra professione, quello dello psicoterapeuta.

Ma quando faccio a volte il bilancio della mia attività professionale, penso che quella dell’insegnante è stata la mia attività più gratificante, anche se purtroppo non si ha un riscontro di quello che trasmetti agli studenti.

Ma mi fa piacere che i miei studenti si ricordino di me invitandomi alle loro cene dopo magari quarant’anni, anche se io purtroppo non di tutti mi ricordo.