Scuola, elogio della classe di Alberto Asor Rosa

Scuola, elogio della classe

di Alberto Asor Rosa

Ho insegnato in tutti gli ordini di scuola, dalla media (cosiddetta unica) all’Università. E, naturalmente, per arrivare a sedermi dalla parte dell’insegnante, ho fatto l’intero percorso sul versante opposto, in questo caso dalle elementari alle medie al ginnasio (una volta) al Liceo all’Università. Frutto conoscitivo ed esistenziale (per me) del doppio transito: io non credo che esista strumento pedagogico più straordinario, sia dalla parte dello studente sia dalla parte dell’insegnante, della classe. La “classe“! L’insegnamento è un gettito di notizie, informazioni, suggerimenti, suggestioni, indicazioni, comportamenti, esempi (sì, anche di esempi), che scende (almeno parzialmente) dall’alto sullo studioso-studente, che cerca di recepirne la maggior parte possibile e, se ne è in grado (e sempre più nel corso degli anni dovrebbe esserlo), la fa propria, l’assume e la rielabora, fino a realizzare un punto di vista proprio sempre più maturo e autonomo.

Parlerei di una vera e propria nebulizzazione del sapere, che scende da tutte le parti sullo studioso-studente e lo aiuta in tutti i modi a “sapere” e cioè a “crescere”. Ebbene, dove avviene tutto questo? Avviene in un’aula scolastica: e cioè, secondo me, in quella che per la tradizione e anche nel linguaggio comune si chiama ed è “la classe”.

Cos’è una classe? È un insieme più o meno discreto d’individui giovani, generalmente coetanei, che seguono l’insegnamento di un gruppo di docenti, diversi per conoscenze e formazione, ma fortemente assimilati fra loro dal compito che di volta in volta sono chiamati a svolgere. Sarebbe possibile raggiungere gli stessi risultati, rinunciando a questo sistema di rapporti? Io non credo.

Per cercare di farmi capire, insisterò molto su di un punto, apparentemente secondario per molti sofisticati innovatori. La classe è un luogo fisico — ripeto: fisico — di rapporti, nel quale l’intersezione dei molteplici rapporti, cui ho fatto riferimento in precedenza, si verifica e vive. Vive: perché se si riducessero l’insegnamento e l’apprendimento ai loro valori puramente intellettuali, invece di crescere gli studenti sarebbero condannati a un’identità para-biologica estremamente elementare.

In una classe scolastica persino la pedatina che lo studente appioppa al suo compagno sotto l’ala protettiva del proprio banco, persino l’occhiata dell’insegnante che la percorre da cima a fondo per trasmettere un avvertimento, un suggerimento, un ammonimento, rappresentano materia costitutiva del sapere scolastico, mentre si forma, quando si forma per la possibilità concreta di essere e diventare un sapere. Insomma: la “comunità fisica” è un coefficiente indispensabile di una “comunità intellettuale” funzionante.

Desidero precisare in conclusione che quanto sono venuto finora sostenendo non intende suonare come una critica agli sforzi che si vengono compiendo a livello istituzionale per far fronte ai rischi presenti nell’espansione del coronavirus.

Anzi, a questo proposito, non vedo come si possa sottacere l’impegno eroico che docenti di ogni ordine e grado hanno compiuto e stanno compiendo per tenere in piedi il sistema formativo italiano con videolezioni, videoconferenze, telefonate individuali. Centinaia di migliaia d’insegnanti lo hanno affrontato con dedizione straordinaria e competenze fuori del comune.

Ma le architravi del sistema non possono essere dimenticate nei momenti di difficoltà. Altrimenti le difficoltà prevarrebbero definitivamente sulle architravi del sistema; e questo sarebbe l’effetto peggiore fra quelli da esse prodotti.

Repubblica 8/5/2020

 

Pagina, questa, per me nostalgica. Non mi lascia indifferente. Il richiamo della classe per me vuol dire riscatto, affermazione di sé, convinta identità professionale per quasi trent’anni, piacere di andare in classe ogni mattina, (e ogni mattina era sempre un altro giorno), sentire la responsabilità di educare i giovani e sentire nello stesso tempo l’accoglienza piacevole dei ragazzi. Riconosco ora che probabilmente hanno influito nel mio modo di essere insegnante alcuni fattori.

Innanzitutto la noia e la pesantezza dello stare in classe ad ascoltare passivamente quasi tutti i miei insegnanti del liceo classico nella seconda metà degli anni cinquanta; l’aver avuto come insegnante di italiano un giovane professore che faceva la differenza con gli altri sia nel contenuto che nei metodi di insegnamento, assunto da me successivamente come modello introiettato di insegnante; l’aver iniziato gli studi universitari a Milano in un tempo di grandi cambiamenti improvvisi, sociali, culturali ed economici che daranno l’avvio alla rivoluzione studentesca del ’68. Aggiungo l’aver studiato pedagogia al corso di laurea in Filosofia che mi ha illuminato su cosa significa educare. E infine l’aver seguito il corso di Laurea in Psicologia a Padova intanto che insegnavo.

Conseguita la laurea in Filosofia, non avrei voluto insegnare, memore dell’avvertimento dell’insegnante di matematica di liceo che negli ultimi giorni dell’anno scolastico, prima degli esami di maturità, sentenziava: “Mi raccomando, ragazzi, fate qualsiasi mestiere fuorché l’insegnante” e in più per la definizione che girava sulla filosofia allora in bocca agli studenti: “La filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale si resta tale e quale”. Ma obbligato dalla necessità a rendermi autonomo e autosufficiente in un Trentino accogliente, giovanissimo, a 25 anni comincio nel 1967 l’avventura dell’insegnamento di materie letterarie, necessariamente improvvisando, confuso e impaurito, “senza arte né parte”. Mi affido inconsciamente all’arte appresa dal mio maestro interiorizzato e alla luce degli insegnamenti della pedagogia appresi, per confrontarmi con la classe. Istintivamente ho puntato sulla classe, a far lavorare gli alunni in gruppo, ad integrare il programma ministeriale con altri lavori sociali e contenuti alternativi. Vedevo l’entusiasmo dei ragazzi e l’impegno nei lavori di ricerca, la partecipazione attiva agli argomenti trattati programmati, lettura del giornale e tanta improvvisazione, che non voleva dire superficialità ma cogliere l’interesse del momento, soprattutto cimentarsi in modo creativo e con la massima libertà con i temi in classe. Gradualmente si costruiva la classe liberando le relazioni interpersonali e la comunicazione. Avevo il vantaggio di aver voluto insegnare al biennio delle superiori, dove c’era la libertà dell’insegnante di elaborare un programma di contenuti con maggiore libertà. La classe la sentivo viva e la conferma mi veniva dopo, quando i miei ex studenti mi trattavano alla pari riconoscendoci come persone e non per i ruoli codificati. In tutto questo c’è stata una rivalutazione delle canoniche udienze dei genitori, momento fondamentale per conoscerli, per confrontarsi non solo sull’andamento scolastico, ma anche sui tratti di personalità dei figli tra il modo di essere in classe e l’essere in casa. Infine l’esperienza che più mi è rimasta impressa nella mia mente e che penso sia stato determinante nella costruzione dell’idea di classe è stata l’aver trasformato l’annuale canonica gita di classe in un vivere assieme in una casa familiare, in una casa di montagna messa a disposizione volentieri dai genitori per due/tre giorni di poter fare vita comunitaria. Conoscersi era l’obiettivo, trovarsi, stare assieme, partecipare alla vita comune.

Ho smesso di fare l’insegnante quando non ho più sentito la classe viva, io compreso, quasi si fosse spenta una candela che durava da circa trent’anni. Mi sono accomiatato dalla scuola, forse una fuga, quando è diventata un’azienda con tanto di dirigenti e dipendenti, o forse per il bisogno di sperimentarmi in una nuova professione, nuova vita, quella dello psicoterapeuta. Ma mi è rimasta l’esperienza vitale della classe come luogo in cui si costruisce una classe di relazioni che vedo ancora vive in qualche classe con cui mi ritrovo di tanto in tanto.

E questa esperienza di classe l’ho trasferita nella mia nuova vita  professionale per cui non faccio psicoterapia se non in un luogo fisico con la presenza reale delle persone. Mi urta pensare che si possa fare psicoterapia, che è principalmente un incontro fisico con l’altro che chiede aiuto, mediante uno smartphone o un monitor a distanza.

2 Risposte a “Scuola, elogio della classe di Alberto Asor Rosa”

  1. Grazie a te , Massimo, per il dono che mi fai. Arriva un tempo per tutti in cui fa piacere di sapere di aver lasciato qualche traccia viva di sè

  2. Massimo Portoghese
    25 min ·

    Gli anni passano e leggere queste parole, mi rassicura sul fatto che gli anni della scuola sono davvero un momento di pura, magia.
    Certo la paura dell’interrogazione, del tema a sorpresa, della onnipresente voglia di evadere era sempre dietro l’angolo, in attesa di una facile preda. Ma la bellezza irripetibile di quei giorni, mi accompagnerà per sempre, assieme alle voci di amici mai dimenticati.
    Alla voce di chi, da una cattedra priva di barriere, ci invitava a studiare prima di tutto noi stessi.
    Grazie per quanto sei riuscito a regalarmi.
    Grazie Giuseppe!!!

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