Massimo Recalcati
Se il fallimento insegna l’amore per l’Altro
Massimo Recalcati
Il nostro tempo è assoggettato al dominio del “principio di prestazione”. Con questa categoria Herbert Marcuse in Eros e civiltà intendeva isolare un tratto essenziale della nostra epoca: non è più il principio di realtà — come indicato da Freud — che sottomette il principio di piacere impedendo alla pulsione di soddisfarsi senza tenere conto del limite costituito dalla realtà, ma un nuovo imperativo che impone alla vita l’essere costantemente in gara. La scena della realtà può essere abitata solo da quelli che soddisfano l’agonismo narcisistico della lotta per la propria affermazione. Questa scena diviene, di conseguenza, il luogo della esibizione permanente del proprio successo. Ne consegue che nel nostro tempo l’esperienza del fallimento ha acquisito il valore di un vero e proprio tabù. Accade tra genitori e figli, come nel mondo del lavoro: l’esperienza del fallimento è considerata una sciagura che deve essere evitata a tutti i costi. In primo piano è l’individuo come monade chiusa su sè stessa che persegue ostinatamente la propria autorealizzazione. La sua libertà è senza vincoli, esaltata, eccitata, infatuata solo di sé stessa.
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La psicoanalisi sovverte entrambi queste due nuovi miti dando valore proprio all’esperienza del fallimento.
Al mito “iocratico” del principio di prestazione contrappone un vero e proprio elogio della crisi e della sconfitta. Sin dalla sue origini freudiane la psicoanalisi riscatta tutto ciò che accade ai margini della vita forte e sicura di se stessa: sintomi, atti mancati, disorientamenti, sogni, incubi, lapsus, fantasie bizzarre. Tutto ciò che la ragione filosofica tradizionale ha scartato come insignificante diviene, agli occhi dello psicoanalista, prezioso come oro. La psicoanalisi si occupa di vite che sono il rovescio di quelle che sponsorizzano il mito del principio di prestazione: vite lacerate che hanno fatto esperienza dello scacco, dell’impaludamento, dello sbandamento; vite bloccate, smarrite, imprigionate. Insomma, cause perse. È di queste che si occupa la psicoanalisi offrendo loro la possibilità di ripartire, di ricominciare. E sostenendo un presupposto etico antagonista al culto ipermoderno dell’auto- affermazione: solo attraverso la crisi e il fallimento possiamo davvero fare esperienza trasformativa della verità. La caduta da cavallo, l’impatto con un ostacolo che non si lascia superare, l’incontro con il nostro limite che l’esperienza del fallimento rivela è un passaggio fondamentale in ogni processo di formazione. Per questa ragione il sintomo per la psicoanalisi non è solo ciò che deve essere emendato. Non è un semplice disfunzionamento della macchina del corpo o del pensiero che deve essere guarito. Il punto dove la vita cede, soffre, sbanda, cade da cavallo può sempre essere un grande occasione di trasformazione. Non si tratta allora di estirpare il sintomo perseguendo un ideale normativo di guarigione, ma di fare parlare il sintomo per accogliere la sua verità.
la Repubblica.it, > 2016 > 10 > 09
Commento
Ma dove sta il valore del fallimento? Cadere è possibile, è una esperienza umana naturale, trovarsi a terra senza averlo messo in conto capita a tanti. E di solito si è in grado di rialzarsi, specialmente quando è una caduta fisica. Ma è quella psicologica che allarma, che diventa patologia, che investe le relazioni, che segna il destino delle persone e delle famiglie. Di solito il fallimento produce ansia, incapacità di reazione, chiusura, nascondimento, depressione nei casi gravi.
Il fallimento può avere diverse cause: fallimento di un progetto, di una scelta sbagliata, di conti che non tornano, nelle quali c’è comunque una azione personale. Ma ci sono anche fallimenti non dovuti ad una responsabilità soggettiva e personale, ma che sono conseguenze di scelte di altri, tanto più la ferita è profonda.
Sono comunque tutti eventi imprevisti, cadute che penalizzano e paralizzano l’individuo, ma è anche un tempo di riflessione e di analisi dell’errore e anche di apprendimento per poter rialzarsi più sicuro e più forte di prima.
Emblematico l’esempio del figliol prodigo, raccontato nel vangelo di Luca, che dopo aver preteso la sua parte di eredità si allontana definitivamente dalla casa e dalla famiglia per costruirsi una nuova vita in un altro mondo. Qui sperpera tutto e per sopravvivere va a fare il guardiano dei porci, costretto a mangiar carrube per sfamarsi. È il tempo del fallimento, del ripensamento. Non si riconosce più il figlio del padre, né il falso adulto che avrebbe voluto essere e che è stato per un attimo. Si sente alienato, senza identità, naufrago sopravvissuto in cerca di approdo. Sopravviene in aiuto la solitudine e il silenzio, che se ascoltati sono buoni consiglieri. Basta fermare il tempo per ritrovarsi, “rientrò in se stesso”. È il tempo della riflessione, il tempo lento del fare i conti, ma non del troppo lento dell’immobilità, ma quello della lentezza necessaria per prendere una sana decisione, del “festìna lente” latino, che tradotto in ammonimento significa: “prendi tutto il tempo che vuoi, ma poi decidi e passa all’azione”. Se ha sbagliato gravemente una volta, non può permettersi di sbagliare una seconda volta sulla scelta da fare. E’ il fallimento, la deriva, la caduta, l’inciampo, – il sintomo, usando un linguaggio psicopatologico -, sempre possibili nell’esperienza umana, che permette e favorisce una rinascita, una nuova vita.
Tutti abbiamo avuto una caduta, un fallimento nella nostra storia, che, una volta rielaborato profondamente, ci fa sperare di poter essere diversi, di ricominciare a camminare verso una nuova meta, e di star meglio. E dopo tanto pensare, non sappiamo se giorni o mesi, il figlio freddo, privo di emozioni, ridiventa il figlio che sente la mancanza del padre e della famiglia dalla quale si era escluso, rompendo rapporti e legami: il tessuto familiare. Nel testo a questo punto troviamo la presenza di due aggettivi possessivi: “andrò da mio padre”, “s’incamminò verso suo padre”. I due aggettivi denotano non tanto la possessività, ma l’appartenenza, il riconoscimento del legame unico che lega un figlio ad un padre, ognuno con la sua specificità: il padre è il padre di quel figlio e il figlio è figlio di quel padre. Trovatosi in terra straniera, sconosciuto fra sconosciuti, senza una comunità e senza famiglia a cui appoggiarsi, nel bisogno e nell’afflizione, riaffiora nella memoria che c’è un padre, suo padre, una casa dove poter rivivere il calore di un affetto, solo se fosse capace di ammettere il suo fallimento e di avere coraggio di fare ritorno.
Così nel nuovo scenario compare la relazione, non più solo l’io onnipotente che accentra tutto intorno a sé, ma il noi che dialoga, che riconosce, che accetta la diversità, che sostiene: l’Altro.
Questo riconoscimento è l’inizio di una pacificazione della relazione e dell’entrata in gioco del valore della giustizia nelle relazioni familiari. Ed è anche quello che avviene nel percorso di psicoterapia.
https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/5-allora-rienro-in-se-stesso/