SE IL RACCONTO È UN DONO – – di Enzo Bianchi[1]

la vita non è quella che si è vissuta                                                                                 ma quella che si ricorda e                                                                                           come la si ricorda per raccontarla”

García Márquez

 

Siamo ormai abituati al bollettino televisivo quotidiano delle vittime dell’epidemia: contagiati, ricoverati, entrati in terapia intensiva, morti e guariti.

L’attenzione è catturata dalle cifre in aumento o diminuzione, destando sentimenti di ansietà o sollievo. Ma il grande rischio di ogni “cronaca” è quello di fermarsi ai numeri, impedendo la consapevolezza che ogni umano ha un volto preciso, una storia, degli affetti e che di ciascuno si deve fare memoria: come scriveva García Márquez, “la vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.

Sarebbe dunque necessario che, oltre ai bollettini, si potessero ascoltare narrazioni dei colpiti e dei guariti dal virus. Narrare significa proprio dare un volto alle persone, che altrimenti rischiano di essere solo numeri; significa dare senso a ciò che accade, rendendo le parole non solo informative ma capaci di umanizzare esistenze anonime.

Non ci è dato di rivivere la vita di un altro, ma solo un suo frammento; e se lo riviviamo interiormente, l’altro non ci è più estraneo.

L’uomo è un essere narrante.

Quando narra fa memoria, rivive e fa rivivere eventi, apre una strada verso il futuro. Molti hanno ascoltato il testo della lettera indirizzata ai suoi familiari e consegnata a una suora infermiera da un anziano ricoverato, quando ha compreso di avere davanti a sé la via della solitudine e della morte.

Questa narrazione è diventata una grande testimonianza: monito per quanti restano, domanda di compassione per chi è vecchio. Si è rivelata capace di penetrare i nostri cuori, muovendoli a interrogarsi e a prepararsi ad agire diversamente.

Ma quante altre narrazioni potrebbero essere donate in questi giorni a tutti, dai bambini ai vecchi.

Sarebbero esercizi al racconto della vita, della capacità di amore e di cura, della possibilità di sperare.

Quanto alla potenza performativa dei racconti, non è difficile cogliere come la nostra cultura, nelle sue radici ebraiche e quindi cristiane, abbia come fondamento la memoria e il racconto. Anche Dio è colui che ci è stato narrato da Abramo, da Mosè, dai profeti e da Gesù: non un Dio dei filosofi ma un Dio narrato da chi lo ha ascoltato.

Ma in questo breve spazio voglio riferire parte di un racconto chassidico: «Quando rabbi Israel Baal Shem Tov voleva ottenere una grazia da Dio, andava in un luogo solitario nel bosco, accendeva un fuoco e pronunciava una preghiera particolare. E veniva esaudito.

Alcune generazioni dopo rabbi Israel di Rizin voleva anch’egli chiedere una grazia, ma non ricordava il luogo, né sapeva accendere il fuoco, né rammentava la preghiera del suo maestro. Allora disse a Dio: “Non so ritrovare il luogo, non so accendere il fuoco, non ricordo la preghiera, ma posso raccontarti la storia e dovrebbe bastarti”. Ciò fu sufficiente a Dio, il quale esaudì la preghiera del rabbi, perché egli adora i racconti». Ciò che vale per Dio dovrebbe valere anche per noi: raccontiamo dunque ai bambini per insegnare loro a vivere, agli anziani per consolarli.

Repubblica 27/04/20

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Commento

Perché propongo la lettura di questo testo di Enzo Bianchi?

Innanzitutto per il contenuto carico di saggezza aquisita in tanti anni di vita monastica con il pensiero e la meditazione, preghiera ormai in disuso fra i laici e forse anche fra i religiosi.

La voce parlante di Enzo Bianchi mi ricorda due verità: che ogni uomo non è un numero e che c’è vita se c’è una storia e memoria di questa storia. Altrimenti la vita appare nel divenire infinito dell’universo come una meteora. Lasciare una memoria e trametterla è dare un senso alla propria vita e a quella degli altri con cui si è vissuto.

Ma leggere e rileggere questo breve testo il mio pensiero subito si è sintonizzato con il mio lavoro psicoterapeutico e con la specifica convinzione che la psicopatologia ha una storia in cui nasce e si sviluppa e si intreccia con la storia familiare, con la storia delle relazioni vitali. Storia spesso sconosciuta perché non c’è stata cura nella trasmissione, non c’è stato un racconto e perché si è perso il tempo del racconto. Rimangono frammenti sparsi di ricordi non connessi con l’essere in relazione con gli altri familiari. E spesso con questi frammenti fraintesi l’individuo costruisce la “sua” storia, la “sua” verità, magari in contrapposizione a quella del fratello, della sorella, della madre, del padre.

Ormai sono arrivato alla conclusione che è inutile fare diagnosi psicopatologica e ancor più diagnosi individuale, così diffusa e spesso distorta nella pratica professionale. L’animo umano non si lascia fissare su una lastra radiografica da scrutare e interpretare con certezza scientifica. È unico, il “mio”, e non c’è un altro con il “mio” animo. Questa è la verità. L’ndividuo umano non è un numero conoscibile da tratti esterni che lo accomunano ad un altro. L’individuo non si lascia imbrigliare dentro schemi, categorie, classificazioni diagnostiche.

Rimane allora la storia se si vuol capire la sofferenza psichica e aprire un’altra storia, ricostruire un’altra storia allargata, connessa con quella degli altri familiari, anche se non sono presenti fisicamente. Allora fare psicoterapia è prima di tutto accogliere l’altro con e nella sua specificità del suo “male di vivere”, non si tratta di estirpare un sintomo, il sintomo non è solo patologia, ma chiave di lettura per vedere quello che è serrato senza saperlo.

[1]Enzo Bianchi 77 anni saggista e monaco laico ha fondato la Comunità monastica di Bose in Piemonte

 

2 Risposte a “SE IL RACCONTO È UN DONO – – di Enzo Bianchi[1]”

  1. Trovo che il testo proposto ha il grande merito di farci prendere consapevolezza del fatto che il ricordo delle persone che sono state direttamente o indirettamente parte della nostra esperienza di vita, resiste in ragione della storia che lo hanno distinto.
    A pensar bene, quando la mente evoca l’immagine di una persona, essa è sempre contestualizzata in un racconto, in una storia per l’appunto. Il ricordo dei miei genitori, che da anni non ci sono più, è sempre inquadrato in un episodio di vita convissuta o di qualche fatto che li ha riguardati e di cui mi hanno reso partecipe. Le storie fanno la Storia, mi verrebbe da dire. In questi giorni in televisione viene trasmessa “La scelta”, si tratta della raccolta delle esperienze dei tanti giovani partigiani impegnati nella lotta di liberazione. Trovo che tutte le narrazioni di quelle donne e di quegli uomini costituiscano le tante tessere di quel meraviglioso mosaico che va a comporre la Storia della Resistenza italiana. Con questo esempio vorrei dimostrare, come per un teorema, che il racconto è un dono. Se lo riusciamo a comprendere in tutte le sue argomentazioni, andando anche oltre quanto comunicato, diventa un vero e proprio insegnamento.

    1. Giuseppe Basile

      ven 8 mag, 2020

      Grazie, Rino, per il tuo intervento.

      Sono d’accordo con te quando dici che “Le storie fanno la Storia”, che i tanti episodi di vita ricordati e connessi fanno la storia della relazione, marito- moglie, madre -figlio, fratello-sorella, nonno-nipote, della famiglia e delle tante relazioni che noi viviamo nella nostra vita, soprattutto di quelle vitali.

      La nostra memoria fa un’operazione di taglio e ricucitura di quanto accade e vissuto nelle nostre relazioni, seleziona in automatico episodi seguendo criteri, apparentemente sconosciuti, ma lo fa secondo una sua logica personale. E secondo me la sua logica è il valore di ciò che ha senso conservare per l’individuo e per la sua sopravvivenza fisica, affettiva, emotiva e relazionale.

      Perché ci chiediamo se saremo ricordati, se sopravviveremo un attimo in più nella mente dei nostri eredi? E chi sono poi gli eredi? I veri eredi? Quelli legittimati dalle leggi, figli, parenti? O sono quelli invece che riconoscono di aver ricevuto una parte di noi stessi che abbiamo trasmesso ai nostri figli senza saperlo. Se ricordiamo ancora i nostri genitori è perché una parte di loro è passata a noi e la facciamo nostra, è parte assimilata della nostra vita, per cui possiamo dire che loro vivono in noi, che non sono morti definitivamente. A condizione che ci sia stata conoscenza e narrazione e memoria di cui ci si è preso cura. Essere eredi è pertanto continuare un progetto di vita che abbia un senso umano.

      Pino

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