Si ama proprio perché si è capaci di lasciare andare – Giuseppe Basile

Si ama proprio perché si è capaci di lasciare andare

 Così mi scrive un paziente:

“Perdere l’affetto nasce dal non sapere che si ama proprio perché si è capaci di lasciare andare e che quell’amore sarà riconosciuto, ricambiato

Mi verrebbe spontaneo dire che è un lasciare andare perché c’è un ritorno e un rientrare con un’altra identità.

L’amore non è possesso, un imprigionare, non è un legare, è un aver cura, un lasciar andare, un lasciar fare scelte anche se non comprese dall’altro. Solo a queste condizioni può esserci riconoscimento che, proprio perché l’altro (genitore) mi lascia andare liberamente, è segno di amore, di accettazione e di fiducia per quello che sono. L’amore per sua natura è reciprocità, riconosce quello che si è ricevuto, spinge ad un ritornare da dove si è partiti, ma a un rientrare con altra identità. E’ un figlio che capisce l’amore che trasforma, che abbraccia, che dà sicurezza, che sa aspettare.

C’era una volta un padre con due figli, e il figlio minore stanco di vivere nella casa del padre e con suo fratello chiede al padre di dargli l’eredità che gli spetta. Il padre ubbidisce, dà la sua parte al figlio insofferente e lo lascia andare senza apparente rimorso, ma con grande preoccupazione, se lo pensa ogni giorno. Il figlio si “perde” e perde tutto quello che aveva. Per sopravvivere fa il guardiano dei porci in una fattoria, ma non gli basta per sopravvivere, per essere quello che era. Riconosce l’ingiustizia verso il padre, riconosce il suo amore paterno. E dopo tanto e lungo pensare, decide di fare ritorno alla casa del padre, accettando l’umiliazione della sua impotenza e della sua povertà. Ma ha fiducia nell’amore del padre che lo abbraccia e lo accoglie con amore.

E’ un incontro tra un padre cambiato e un figlio cambiato, che si incontrano in una nuova relazione, che si sperimentano con un “noi” diverso, più elastico, più accogliente e più rispettoso delle reciproche fragilità e diversità. Entrambi si sono chiesti: “Chi sei tu per me”? Lo stesso di prima? Nei fatti la risposta è “no”. Diverso è il padre che accoglie e diverso è il figlio che ritorna. Entrambi riconoscono che il loro modo di essere statici, bloccati nel loro relazionarsi, nella pretesa di aver ragione è un fallimento dell’amore.

Se la relazione perde la sua elasticità, divenendo sempre più rigida e ingessata, apre la porta alla psicopatologia, allo “stallo” relazionale in un gioco senza fine di mosse e contromosse, di immagini e identità stereotipate che può continuare all’infinito senza un vincitore e un vinto.

Sottostante al fenomeno dello stallo relazionale c’è la pretesa di conoscere l’altro e se stessi. Frequente è il modo di dire, specialmente nelle situazioni conflittuali: “Io so già come la pensi”, “Io so già chi sei”, “Io son fatto così” come se avessimo la testa di cristallo e vi si possa vedere quello che c’è dentro. Ma non è così, l’altro (padre, madre, marito, moglie, figli) con cui siamo in relazione rimane, nonostante la conoscenza che ne abbiamo, uno sconosciuto, e anche noi sconosciuti a noi stessi. E lo diceva anche Freud con una metafora:

“l’Io si sente a disagio, incontra limiti al proprio potere nella sua stessa casa, nella psiche. Questi ospiti stranieri sembrano addirittura più potenti dei pensieri sottomessi all’Io e tengono testa ai mezzi di cui dispone la volontà”.

Possiamo solo tentare di spostare il limite della conoscenza un po’ più in là ogni volta, specialmente quando la relazione con l’altro perde la sua funzione di benessere o quando troviamo difficoltà con l’altro che ci sta a cuore.

Si impone allora il “Perché” del padre della parabola di Luca, perché l’altro, il figlio, ci appare diverso, sconosciuto nei suoi modi di comportarsi e di relazionarsi. Lo stesso “Perché” si impone alla figlia/o per poter capire la relazione che lo lega al padre/madre prima che si rompa definitivamente.

È possibile un nuovo punto di incontro ad un livello superiore rispetto a prima? È possibile dare un senso, un significato a modi di essere e comportamenti relazionali che debordano dalla linea, dalla norma finora conosciuta. Ha un senso il caos, l’imprevedibilità in cui sembra essere precipitata la relazione?

Possibile, anche se non tutto è conoscibile. Non si tratta di ricorrere a maestri, ma cominciare a fare quello che fa il figlio della parabola lucana: il rientrare in se stessi, anche se dice Freud che non siamo però padroni nemmeno in casa nostra. Bisogna essere capaci di fermare il tempo dell’affaccendarsi per fare spazio al tempo del silenzio, sgombrare la mente per un momento dai fardelli della quotidianità. E’ anche per questo che sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, dove gli antichi greci si recavano per trovare risposte ai problemi, era scolpito in grande e come ammonimento: “Conosci te stesso”, che, tradotto, vuol dire che le risposte che cerchiamo son dentro di noi, se riusciamo a conoscerci.

Mi piace ripetere alle persone che si affidano a me per una terapia che il tempo della seduta è un tempo sospeso, un tempo dell’ascolto, volutamente un tempo lungo per fare spazio e silenzio dentro di sé per prendere contatto con se stessi e con l’altro presente o assente con cui si è in relazione.