Siamo diventati analfabeti della riflessione, ecco perché la solitudine ci spaventa – – di Pier Aldo Rovatti

Dovremmo cercarla, creandoci un nostro deserto tascabile. Invece la rifiutiamo, ritrovandola. In peggio

Una delle più celebri poesie di Francesco Petrarca comincia con questi versi: “Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti”. Quelli della mia età li hanno imparati a memoria, e poi sono rimasti stampati nella nostra mente. Non saprei dire delle generazioni più giovani, dubito però che ne abbiano una famigliarità quasi automatica.

Bisogna riavvolgere la pellicola del tempo di circa ottocento anni per collocarli nella storia della nostra letteratura e nella cultura che vi si rispecchia, eppure è come se questi versi continuassero a parlarci con il loro elogio della solitudine (non certo il primo e molti altri ne sarebbero seguiti). Ancora adesso filosofi immersi nella realtà, ben consapevoli delle difficoltà di muoversi su un terreno complesso e incerto, ci esortano a dotarci di qualcosa di simile a un “deserto tascabile” per tentare di orientare le nostre vite.

Non sentiamo il bisogno di “deserti tascabili”, cioè individuali, maneggiabili, personalizzati, per il semplice fatto che li abbiamo in casa, nella nostra stanza, nella nostra tasca, resi disponibili per ciascuno da una ormai generalizzata tecnologia della solitudine. Perché mai dovremmo uscire per andare a misurare a passi lenti campi lontani (o inventarci una qualche siepe leopardiana al di là della quale figurarci spazi infiniti), a portata di clic, una tranquilla solitudine prêt-à-porter di dimensioni incalcolabili, perfezionabile e potenziabile di anno in anno?

Non c’è dubbio che oggi la nostra solitudine, il nostro deserto artificiale, stia realizzandosi in questo modo, che sia proprio una fuga dai rumori e dall’ansia attraverso una specie di ritiro spirituale ben protetto in cui la solitudine con i suoi morsi (ecco il punto!) viene esorcizzata da una incessante fornitura di socialità fantasmatica. Oggi ci sentiamo terribilmente soli, di fatto lo siamo, e cerchiamo riparo non in una relazione sociale che ormai ci appare barrata, ma nell’illusione di essere presenti sempre e ovunque grazie a un congegno che rappresenta effettivamente il nostro essere soli con noi stessi. Un circolo vizioso.

E a chi obiettasse che questo è un quadro tinto solo di pessimismo, chiedo semplicemente di osservare di cosa è fatta la nostra quotidianità – adulti, adolescenti, bambini – in cui il dialogo è diventato ormai asfittico e poco attraente, e le pause nella loro massima parte vengono riempite da contatti virtuali, ai quali deleghiamo distensione e rilassamento. Per sconfiggere la solitudine esistenziale ricorriamo a un’esperienza che promette di aprirci senza sforzo al mondo, però stando sul posto, ognuno per conto suo, in un atteggiamento decisamente solitario. Stiamo popolando o desertificando le nostre vite? La domanda è alquanto retorica.

E’ accaduto che parole come “solitudine”, “deserto”, “lentezza”, cioè quelle che risuonano negli antichi versi di Petrarca, hanno ormai cambiato rotta, sono diventate irriconoscibili e non possiedono più alcuna prensione sulla nostra realtà. Eppure ci parlano ancora e vorremmo che producessero echi concreti nelle nostre pratiche. Qualcosa di esse pare inesorabilmente uscito dai cardini: non cerchiamo più nessuna solitudine perché non ne possediamo più alcuna idea utilizzabile, anzi vorremmo evadere dalla prigione dell’essere soli e soprattutto da quella di trovarci da soli di fronte a noi stessi, nonostante pressanti offerte terapeutiche ci spingano ogni giorno verso questo temibile confronto.

Ma allora di cosa ci parlano quei versi che pure sembrano ancora intrisi di senso? È scomparso il nesso tra le prime due parole, “solo” e “pensoso”. Oggi siamo certo soli, come possiamo negarlo nonostante ogni artificio, ogni stampella riparatrice? Ma tra la nostra solitudine, che non osiamo neppure guardare perché ci fa paura, e la solitudine che (per esempio) traspare nei versi di Petrarca c’è un’enorme differenza, ben marcata dalla quasi completa scomparsa della pensosità. Siamo soli ma senza pensiero, solitari e incapaci di riflettere.

Non so se abbia senso parlare di una falsa solitudine alla quale contrapporre quella “vera” che ormai è uscita dal nostro orizzonte. La condizione in cui viviamo è infatti una solitudine effettiva, reale, avvilente, tutt’altro che falsa. Di solito non ce ne accorgiamo, ci illudiamo che non esista o sia soltanto una brutta sensazione magari prodotta da una giornata storta. E allora si tratta di decidere se sia meglio continuare a vivere in una sorta di sonnambulismo oppure tentare di svegliarci, di guardare in faccia la nostra condizione, di scuoterci dal comodo letargo in cui stiamo scivolando. Per farlo, per muovere un passo verso questo scomodo risveglio, occorrerebbe una difficile operazione che si chiama pensiero. In primo luogo, accorgersi che stiamo disimparando a pensare giorno dopo giorno e che invertire il cammino non è certo qualcosa di semplice.

Ma non è impossibile. Ci servirebbero uno scarto, un cambiamento di direzione. Smetterla di attivarsi per rimpinzare le nostre ore, al contrario tentare di liberare noi stessi attraverso delle pause e delle distanze. Forse sta qui il significato di quella solitudine che abbiamo disimparato, che porta con sé anche l’idea di “deserto” e il contromovimento della “lentezza”.

Potremmo scoprire, non senza sorpresa, che pensare corrisponde proprio a un simile svuotamento, un gesto quasi assurdo per l’ideologia del riempire che ci bombarda e colonizza ogni nostro momento. E renderci fattualmente conto che non si tratta di correre, correre sempre di più, bensì di rallentare i nostri passi e magari di farli diventare “tardi”. Ma così non ci si destina a un sicuro insuccesso? Dipende da che rappresentazione ci facciamo del successo. Se riuscissimo a introdurre nelle nostre vite un poco di questo contromovimento – cosa davvero non facile – potremmo salvare il pensiero dal suo attuale naufragio, o almeno riscoprire il senso della “pensosità” che abbiamo perduto.

Siamo infatti diventati degli analfabeti della riflessione. Per riattivare questa lingua che stiamo smarrendo non dovremmo continuare a riempire il sacco del nostro io, bensì svuotarlo. Ecco forse il segreto della solitudine che non siamo più capaci di utilizzare.

L’Espresso 09 marzo 2018

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Commento

La solitudine è una condizione umana, un bisogno di staccarsi dalla frenetica e assillante quotidianità per recuperare in un luogo e in silenzio il contatto con la propria interiorità, con i propri stati d’animo, con i propri dubbi, con la propria istanza di cercare risposte ai tanti perché della vita. Quindi solitudine come scelta esistenziale per potersi tuffare più sicuri nel mare della vita.

L’isolamento è tutt’altra cosa che la solitudine, ma una condizione imposta dal sociale, (il sentirsi isolati) o una condizione voluta e scelta per difetto di personalità (autoisolamento).

Ma c’è un’altra condizione di solitudine, quella più penosa e che affligge e che non dà pace: la solitudine come mancanza, come desiderio di non sentirsi soli, come ricerca inappagata di una relazione con l’altro, compagno di viaggio che sostiene e rassicura, da cui sentirsi amati, per dirla con Bowlby. E la mancanza d’amore può portare alla disperazione, ad uno stato di sofferenza permanente, come purtroppo vedo nella mia pratica professionale, tanto da farmi convinto come ho già scritto in un altro testo : “Con il tempo e con gli anni mi sto convincendo sempre più che l’unica vera terapia che guarisce è l’amore, perché sotto ogni variegata forma di patologia c’è sempre la disperazione della solitudine”[1] e che “l’amore nelle sue varie, infinite declinazioni sia l’unico “divino collante” per la nostra umana frammentazione, e che lo specifico terapeutico consista in una riattivazione della capacità di legame sano”[2]

 

Rileggo questa mia pagina di alcuni anni fa, e altri pensieri mi si affacciano dalla memoria dei ricordi. Non so quando e perché, ma c’è stato un tempo, quando studiavo filosofia all’Università Cattolica di Milano, in cui incominciai a sentire il bisogno di ritrovare me stesso nel silenzio, di “staccare la spina” in un tempo e in un luogo. Ho ancora vivo il ricordo del mio primo volontario ”ritiro” di alcuni giorni nella circestense Abbazia di Chiaravalle condividendo con i pochi monaci le giornate, il silenzio, il lavoro e la preghiera. Da allora trasferitomi a Rovereto, ogni anno prima di iniziare l’anno scolastico ho mantenuto fede e impegno di ritagliami qualche giorno di silenzio in una qualche struttura religiosa o monacale.

Infine ho appreso da Machiavelli il bisogno di lavorare di sera fino a notte tarda:

“Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.” (Niccolò Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori 10 Dicembre 1513).

 E come lui, divido ogni giorno il tempo del fare e il tempo del pensare, una pratica che seguo anch’io quasi sistematicamente ogni sera nelle tarde ore notturne o in quelle antelucane prima del risveglio degli uccelli: sono le ore più preziose per me, non solo per cercare risposte al mio esistere, “per incontrare me stesso”, ma anche per cercare risposte e aiuti da dare ai miei pazienti che si affidano a me e che mi fanno da specchio dove rivedo parti della mia umanità.

 

[1] 1. Giuseppe Basile, La ricetta della cioccolata, Intervento al 4° Convegno Residenziale della Scuola di Psicoterapia della famiglia “Mara Selvini Palazzoli” – Salice Terme 7- 9 novembre 2008
[2] 2. Giorgio Festa, “Non più, non ancora: un terapeuta a confronto con alcuni passaggi del proprio ciclo vitale.”, Ecologia della mente vol. 30, n. 1, 2007