Sognavo di avere un corpo trasparente e luminoso di Michela Marzano

Sognavo di avere un corpo trasparente e luminoso

Michela Marzano

“Ma più si allontanavano, più ne avevo bisogno. Intrappolata in un universo carcerale che mi ero costruita da sola, sognavo di avere un corpo trasparente e luminoso. Ma quel che restava del mio corpo era solo la testimonianza di un’incapacità di vivere. La prova tangibile del vuoto colpevole della mia esistenza…

Ero in caduta libera verso il nulla. In frantumi. Anche perché avevo iniziato una nuova terapia che non funzionava e che, nonostante ce la mettessi tutta, peggiorava il mio stato.

Il dottor F., a differenza di Annabella, non voleva avere sempre ragione. E cercava, con le migliori intenzioni del mondo, di rintracciare l’origine del mio malessere. Ma forse il problema era proprio lì, nel cercare a tutti costi di spiegare, di analizzare, di capire. Perché a forza di scardinare tutte le certezze che mi portavo dietro, si era rotto l’argine che mi separava dalle tenebre.

Talvolta il sintomo è anche questo. Protegge da qualcosa di talmente profondo e pericoloso che non si può rischiare di portarlo allo scoperto troppo presto. Può sembrare assurdo, ma il rituale del «mangiare e vomitare» dà l’illusione di «controllare» la situazione: è meglio restare prigionieri della dipendenza dal cibo, che lasciarsi andare all’angoscia terribile dell’assenza irreparabile…

«Non riesco a far altro che mangiare e vomitare.»

Mi sedevo in poltrona di fronte all’analista. Ed era sempre la stessa storia. Il cibo. Ormai onnipresente. Come se nella vita non ci fosse nient’altro.

«Perché? Che cos’ha di tanto affascinante questo rituale ossessivo?» Ogni volta le stesse domande.

Perché il dottor F. voleva delle risposte. Dei perché. Anche solo una parola cui potersi aggrappare”.

Michela Marzano – Volevo essere una farfalla. pagg. 46-47

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Commento

È la storia autobiografica di Michela Marzano che nella sua giovinezza è stata anoressica e di come sia riuscita a venirne fuori dal tunnel oscuro dell’anoressia.

Sono pagine pubblicate anni fa, quando Marzano non aveva la fama che ha adesso, rilette oggi con occhi diversi.

“Intrappolata in un universo carcerale che mi ero costruita da sola, sognavo di avere un corpo trasparente e luminoso”. È quello che sognano e che sentono tutte le anoressiche. Sentirsi intrappolate in un universo carcerale. Ma un carcere non si costruisce da sola, da soli non si va da nessuna parte, nessuno si fa da sé. Siamo tutti figli della relazione dalla nascita, e pare anche da prima, anche se non se ne ha consapevolezza e coscienza. Se leggessimo la storia personale e quella familiare con gli occhi della relazione, capiremmo meglio il chi siamo e perché siamo quel che siamo. Capiremmo meglio l’intreccio nascosto della rete relazionale  che tutti abbiamo tessuto inconsciamente, ognuno con la sua responsabilità. E capiremmo forse meglio la sofferenza psicologica, il sintomo, di cui uno della famiglia si fa portatore ad un certo punto.

Il sintomo non è solo patologia da estirpare ad ogni costo, è una difesa e un grido di aiuto. Il sintomo significa qualcosa, è dotato di senso, è messaggio, è comunicazione, anche se comunicazione metaforica, e non è solo patologia classificata, etichettata in un manuale psicodiagnostico, a cui si possa attingere per avere ragguagli su come possa essere curato ed eliminato. Fondamentalmente il sintomo è una difesa. Per questo, innanzitutto, va capito e interpretato e non serve farlo tacere con il silenziatore farmaceutico. Perché se nella rete relazionale ci sono falle, strappi e scuciture, il non vederle o il minimizzarle non aiuta a ripristinare equilibri familiari più funzionali e rispettosi delle individualità. Altrimenti prima o poi la sofferenza dilaga, coinvolge tutti, magari in modi diversi.

Il sintomo è qualcosa di cui parla e su cui si lavora, ma non si sa con certezza cosa sia, perché il sintomo ha una natura metaforica, comunica qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, qualcosa che va ricercato con pazienza, passione e desiderio di conoscere per aiutare. Non sempre la ricerca e la interpretazione del sintomo è facile e non sempre la si trova. Se i terapeuti che hanno incontrato Michela Marzano avessero visto questa faccia relazionale del sintomo e se ci fossero state le condizioni per incontrare la famiglia, forse i drammi, a cui lei fa cenno nel suo libro, sarebbero stati capiti prima. “Perché il dottor F. voleva delle risposte. Dei perché”, a cui lei da sola non era in grado di dare.

A volte io preferisco confessare umilmente che mi trovo con le mani vuote, anche dopo molta fatica e molte energie spese nella ricerca, e lo comunico al paziente, anche se può sembrare controproducente offrire all’altro l’immagine di un terapeuta senza potere, piuttosto che ammantarmi di un finto potere.

Ma nello stesso tempo comunico che non abbandono la persona e la ricerca del senso del suo star male, se c’è ancora fiducia nella relazione terapeutica.