Solitudine. La parte di me che non conosco di Maurizio Maggiani

 

Solitudine. La parte di me che non conosco

di Maurizio Maggiani

Dal latino sollus, intero. I latini lasciarono perdere il greco monos e se lo presero direttamente dal sanscrito sarvah, che sta appunto per completo, intero. Non che i greci con il loro monos volessero poi dire una cosa tanto diversa, infatti il monaco, che viene dritto dritto da monos, ritiene di trovare la sua interezza nella solitudine. Ecco, pare che né greci né latini, ciascuno per la sua strada, trovino che ci sia niente di male nello star soli, nella solitudine. Anzi, è solo lì, pensavano, che è possibile percepire la propria interezza e sentirsi completi.

Cosa ne è allora di noi che nella solitudine ci maceriamo, ci disperiamo, ci straziamo, che di solitudine ne moriamo? Forse che abbiamo abbandonato la speranza di riconoscerci nella nostra interezza, forse che ci siamo arrivati all’interezza e ci ha spaventato a morte quello che abbiamo visto, o anche solo intuito di noi?

Sono vecchio e nelle attuali contingenze virali dovrei stare in campana, sono classificato come terza scelta, eppure la cosa non mi ha mai spaventato; il giorno di Pasqua ho fatto a scopo documentale un lungo viaggio di trenta chilometri, non ho incontrato nessuno, nessuno nemmeno ai crocicchi, nessuno davanti a una casa, a una chiesa, su un’auto o su una panchina. E ho avuto paura.

Paura vera e irrimediabile, paura di bambino. Forse che non incontrando nessuno ho incontrato me stesso? No, io sono da qualche parte che ancora bene non so. Credo invece che non incontrando nessuno non ho incontrato neppure me. Perché i monaci sono pochi e santi e ultraumani, e la loro solitudine non è la mia.

La Reppubblica 01/05/2020   (Robinson)

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Commento

A me pare che ci siano due tipi di solitudine, quella cercata e quella subita.

La prima è una scelta ricercata, bisogno di stare da solo, di trovarsi da solo, bisogno di conoscere se stessi, bisogno di interrogarsi, bisogno di ritirarsi dal caotico mondo esterno, spegnendo l’assordante rumore. Ci spinge la ricerca di noi stessi, il desiderio di trovare risposte al senso della vita, superando quelle già date dagli altri, dalla filosofia, dalle religioni. Perché alla fine ognuno deve fare i conti con se stesso per ritrovarsi, non può prendere a prestito le risposte degli altri, né tanto meno può farlo una volta ogni tanto. Dovrebbe essere una pratica apprezzata, consolidata, accompagnata dal silenzio quasi sacrale secondo un rituale personalizzato.

In questo mi è stato maestro Machiavelli con quanto scriveva al suo amico Francesco Vettori nel 1503:

“Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.” (Niccolò Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori 10 Dicembre 1513).

E come lui divido ogni giorno il tempo del fare e il tempo del pensare, una pratica che seguo anch’io quasi sistematicamente ogni sera nelle tarde ore notturne o in quelle antelucane prima del risveglio degli uccelli: sono le ore più preziose per me, non solo per cercare risposte al mio esistere, “per incontrare me stesso”, ma anche per cercare risposte e aiuti da dare ai miei pazienti che si affidano a me e che mi fanno da specchio dove rivedo parti della mia umanità.

C’è poi la solitudine come mancanza, la solitudine psicologica, il non esser con, con qualcuno con cui condividere la vita, la solitudine come rifiuto dell’altro, la solitudine come perdita dell’altro, la solitudine come illusione di bastare a se stesso, la solitudine come mancanza di amore.

Con il tempo e con gli anni mi sto convincendo sempre più che l’unica vera terapia che guarisce è l’amore, perché sotto ogni variegata forma di patologia c’è sempre la disperazione della solitudine. Non siamo fatti per vivere da soli, ci accompagna il bisogno di cercare l’altro anche in punto di morte.