Spero che la mia scelta di rimanere qui a ogni costo non vi abbia dato dispiacere”. Fabrizio Rasera

“Mi faceva disperare mio padre, quando nelle nostre interminabili discussioni entrava il tema della Resistenza. “L’abbiamo fatta noi la resistenza più vera, non i partigiani”, diceva, e per noi intendeva quelli che erano stati prigionieri dopo l’8 settembre 1943 della Germania nazista e che avevano detto no alle ripetute proposte di optare per i tedeschi o per la repubblica mussoliniana. Studente pretenzioso, in realtà di quella storia poco o niente conoscevo, ma mi pareva chiaro che un rifiuto ideale non si potesse confrontare con la ribellione attiva. Ho un ricordo sfocato di come quel rifiuto mi fosse raccontato, so però che faticavo a comporlo con la rivendicazione orgogliosa della sua partecipazione alla guerra fascista. Un’adesione volontaria, o comunque sentita come tale, che immise il ventenne Aurelio in una successione di catastrofi dalle quali non uscì indenne: la campagna di Russia e la ritirata, che gli sottrassero le energie più profonde; la prigionia in una remota Prussia, espulsa dai nostri atlanti postbellici; il bombardamento di Dresda con le fiamme che distrussero una delle più belle città d’Europa e innumerevoli vite. Della lunga dimora purgatoriale tra l’inferno di gelo e l’inferno di fuoco so pochissimo, perché mio padre non amava parlarne o forse perché non lo ho ascoltato abbastanza. Ma un messaggio da là mi è pervenuto in tempi recenti, in un modo tanto imprevedibile da assomigliare a una finzione narrativa. Aprendo la cassetta della posta, una mattina, ho riconosciuto immediatamente la grafia di Aurelio su una vecchia cartolina postale tedesca. Il brevissimo testo era un’inequivocabile rivendicazione della sua resistenza: “Spero che la nostra scelta di rimanere qui a ogni costo non vi abbia dato dispiacere”. Alla lettura dell’indirizzo ho capito finalmente che quella testimonianza non veniva dal cielo ma dal piano di sopra: inviata nel 1944 dalla Germania a una famiglia amica, vicino alla quale ora abito, mi veniva imbucata dopo la scomparsa dell’ultimo dei destinatari.”

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Commento

Caro Fabrizio, appena letta, la tua testimonianza ha innescato in me un immediato cortocircuito con una similare mia esperienza con mio padre poco prima della sua morte a 90 anni. Nella cartolina ritrovata per caso e in modo imprevedibile e impensabile trovi scritto e lo sottolinei: “Voglio sperare che la mia decisione di rimanere a qualunque costo qui non mi avrà tolto la vostra simpatia”

Ho avuto l’impressione immediata che quelle due righe fossero per te una qualche rivelazione di una verità sconosciuta sul suo essere tuo padre che divergeva dall’immagine di padre che di lui tu ti eri creata.

È stata provvidenziale, forse veramente ”venuta da là” con un messaggio cifrato, che solo tu potevi riconoscere e con cui rifare i conti di una storia relazionale e forse familiare. Chissà quante volte ti sarai chiesto il perché di quella scelta di Aurelio, che alla luce dei fatti è stata quella più nobile, e giustamente ne rivedicava l’onore, la coerenza, la fedeltà, parafrasando San Paolo 2Timoteo 4,7: “7. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. Quanto poi a giudicare quello che è giusto e quello che è ingiusto, trattandosi di una scelta di vita, lo si può fare solo con altri criteri, storici, politici, culturali, ma dal punto di vista esistenziale, la scelta rimane sconosciuta nel segreto dell’animo umano e nella storia familiare in cui tuo padre è vissuto.

Mi chiedo, e azzardo una scommessa: Sarebbe cambiata la storia relazionale fra te e tuo padre se avessi potuto capirlo e conoscerlo meglio? Se quella cartolina ti fosse capitata per le mani sessant’anni fa? Io penso di sì. E lo dico sostenuto da quello che vedo nel mio lavoro professionale di psicoterapeuta quando l’attenzione e la curiosità si focalizzano sulla ricostruzione della storia familiare del paziente. Si scopre sempre nella nuova narrazione un qualche evento sconosciuto o male interpretato o ritenuto marginale che fa scoprire invece un’altra storia che sana il malessere non solo individuale, ma anche quello familiare. Siamo sconosciuti a noi stessi e agli altri, possiamo spostare in avanti i confini della conoscenza , ma c’è sempre una parte di noi e dell’altro che rimane segreta, non per scelta ma per storia.

Stessa cosa è successa a me. Ho conosciuto poco mio padre,  forse perché come il tuo  “mio padre non amava parlarne”. Altra storia quella di mio padre, orfano di guerra a 16 mesi di un padre contadino emigrato in “America”, richiamato alle armi nel 1915 e morto sul Carso nel 1916. Anche lui richiamato alle armi nel 1941. Di quel periodo ho sempre saputo poco, so che era premuroso, attento ai bisogni di noi figli, ha fatto sacrifici a farci crescere, ma non ho mai saputo cosa ci fosse e cosa si muovesse dentro il suo cuore. Con mio padre siamo vissuti assieme per 63 anni quasi come sconosciuti. La regola della relazione e della comunicazione era la distanza emotiva. Conoscevamo l’uno dell’altro solo quello che era visibile nella quotidianità della vita, gli appuntamenti canonici familiari, ma sconosciuti nella nostra vita interiore, restava invisibile l’altra faccia della luna. Lui era un’assenza per me, c’era e non c’era contemporaneamente. Erano mondi segreti, il suo e il mio, non per scelta, ma per un’incapacità di comunicazione sentimentale.

Inaspettatamente, alcuni mesi prima di morire, a 90 anni, succede l’imprevisto. Eravamo seduti io e lui soli sul balcone di casa. Gli facevo compagnia, seduti uno accanto all’altro in una tiepida serata di settembre, la comunicazione era fatta più dai silenzi che dalle parole. Improvvisamente, rompe il silenzio, appoggia affettuosamente la sua mano sulla mia gamba e inaspettatamente mi dice quasi con implorazione e sottovoce; “Nun ta’ scurdari ri mia”, “Non devi dimenticarti di me”. Ed è calato subito dopo il silenzio di prima, un parlarsi senza dire, non c’era bisogno di commentare, fare promesse inutili. Non so se e quanto gli sia costato consegnarmi quella raccomandazione e con quel modo asciutto, immediato, lapidario, in quell’attimo silenzioso, rivelandosi ai miei occhi e al mio cuore altro da quello che era stato fino allora.

Allora ho capito la verità di quello che dice Recalcati quando scrive che “L’essere del padre è sempre l’essere di un’assenza” e “La forza della testimonianza è nel suo accadere là dove non l’avresti mai aspettata”

https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/leggere-il-dolore-sulle-foglie-massimo-recalcati/