Transfert e Controtransfert nella seduta psicoterapeutica – – – – Giuseppe Basile

Transfert e Controtransfert nella seduta psicoterapeutica

Giuseppe Basile

 

Ho una curiosità. Ma cosa c’è che la “disturba” nella storia della sua famiglia, che la porta ad investigare le dinamiche familiari?”

 

Questa è una domanda che mi fa e scrive un paziente in psicoterapia appena iniziata. Domande e interventi su di me e sulla mia famiglia che si sono ripetuti durante il percorso terapeutico. Se prima ero meravigliato di questa intrusione inaspettata nella mia vita privata, anche perché era la prima volta che mi succedeva nella mia trentennale esperienza professionale di psicoterapeuta, ho cominciato a pensare che fosse, detta in termine tecnico, una proiezione o transfert del paziente.

Perché mai, mi chiedevo, lui vede che c’è qualcosa che mi disturba nella mia famiglia, che io non vedo e non sento? E’ ben vero però che in terapia c’è un flusso di informazioni che passa dal paziente al terapeuta e viceversa. La mia meraviglia è stata quando il paziente connota che io sono disturbato da qualcosa che vivo in famiglia. Sulla base di quali informazioni è arrivato a formulare questa sua conoscenza? Non solo, ma quando gli davo risposte, apparentemente si scusava di questa sua intrusione, per poi in un secondo tempo insistere con altre domande analoghe sempre su di me e sulla mia famiglia.

Per semplificare, di cosa si tratta? Si tratta che quando ognuno di noi vive una esperienza, un sentimento problematico, una relazione difficile da accettare e da gestire, per liberarcene, inconsciamente, la proiettiamo su una figura significativa che è in relazione con noi (il terapeuta). La proiezione, appunto perché inconscia, si attiva spontaneamente e permetterebbe così di vedere e sapere cosa fa l’altro da me, ritenuto capace, per affrontare una situazione problematica o per sperare di trarne un qualche vantaggio. E’ come quando qualche volta incontriamo una persona sconosciuta e istintivamente proviamo simpatia o antipatia apparentemente senza sapere perché. Solo dopo, se ci interroghiamo, riusciamo a individuare il perché: da come parla, da come mi guarda, da come si veste, e da tanti altri segni che sono tutti messaggi non verbali, che io decodifico secondo un mio codice personale e quindi rispondo trasferendo sull’altro, a livello inconscio, un mio sentimento positivo o negativo, che sta dentro di me.

Analizzando il contenuto specifico del mio paziente, proiettato inconsciamente su di me: “Cosa c’è che la disturba nella storia della sua famiglia”, cosa proietta, se non un suo malessere familiare, qualcosa che disturba il vivere nella sua famiglia. Ma ancora, nello specifico, cosa proietta su di me: il vissuto di suo padre in famiglia che si sovrappone al mio essere padre? o anche la figura di mio padre, avendone parlato in seduta, aspettandosi così una risposta al suo star male, e altro ancora?

Però le reazioni del terapeuta al transfert del paziente possono essere diverse: non si accorge delle proiezioni del paziente, se ne accorge ma cerca di restare neutrale, se ne accorge e le giudica inopportune e improprie per il lavoro che si sta facendo o infine possono essere utilizzate per la comprensione del paziente poiché non sono altro che sue proiezioni di un suo modo di essere, quindi molto significative. E dalla scelta che ne fa delle proiezioni il terapeuta discende come conseguenza un percorrere strade diverse più o meno innovative nella cura del paziente. Avendo comunque sempre presente che non basta rivisitare e analizzare il passato, senza anche interpretare quanto la relazione attuale paziente/terapeuta fa emergere nel presente.

Interessante poi la risposta e la reazione del paziente alle mie osservazioni:

“è una cosa che dovrei imparare, è ascoltare, rispettare l’altro che parla. Ma ciò non implica che invece, pur non conoscendo, possa “intuire”, portandomi alla presunzione di capire sempre la gente”.

Il paziente riconosce che il suo limite nella conoscenza dell’altro è l’”intuire” che lo porta alla presunzione di capire la gente. Quel dover imparare ad ascoltare, rispettare l’altro che parla, è l’ammissione di un limite, o meglio è una modalità di apprendimento conoscitivo antica, appresa già nell’infanzia, apprendimento emotivo che “intuisce” con immediatezza, quasi fosse una necessità istintiva ed emotiva di darsi una risposta a ciò che è sconosciuto. Come quando Come quando, in una situazione di pericolo grave in cui possiamo trovarci, la prima reazione è quella immediata, istintiva, di difenderci dal pericolo.  Anche se si possono fare errori di valutazione nell’immediatezza del bisogno conoscitivo, errori riconosciuti dopo, quando sono passati al vaglio della conoscenza razionale.

Sfugge al paziente, e a volte allo stesso terapeuta, che quella “intuizione” è invece una proiezione inconscia, cioè un suo sentire e un suo sentirsi nella relazione, messaggio ambivalente e ingannevole che aspetta risposta e che va decifrato, e non una semplice interferenza casuale. Ancor più se questi messaggi sono ripetuti nel corso della terapia.

“Questo è curativo: riappropriarsi della libertà interiore di potersi vedere per quel che si è, e non per quel si è stabilito in modo definitivo di dover essere con l’illusione di soffrire meno.”[1]

[1] Dal controtransfert alla self-disclosure: la scoperta della soggettività dell’analista, Maria Luisa Tricoli
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