Un comprendere clinico del sentimento di vuoto esistenziale – Corrado Pontalti

Un comprendere clinico del sentimento di vuoto esistenziale[1]

Come segnalato nel paragrafo precedente, le radicali trasformazioni strutturali dei codici ontologici e valoriali di riferimento, modificano ampiamente la costruzione stessa dell’apparato psichico, della mentalità comune. Tutto ciò ha ovviamente molte implicazioni nella trama dei significati, delle aspettative, delle problematiche dei campi relazionali. Il venir meno di vincoli valoriali sociali lascia le persone di fronte a un compito completamente nuovo. Nell’epoca del presentismo viene meno l’illuminazione del presente permessa dalla continuità referenziale con il passato e la progettualità verso il futuro non è più garantita da vincoli sociali condivisi. Tutto l’itinerario di vita diviene un fatto privato, e in quanto fatto privato, si pone indifferente allo sguardo del sociale. Inoltre, all’interno di questa responsabilità privata, e quindi molto fragile, si muovono due istanze laceranti.

In primo luogo l’individuo si costruisce come persona nell’aspettativa di un continuo e legittimato diritto al possesso di oggetti e al diritto di pienezza soddisfacente. La fatica del vivere è percepita come ingiusto dolore mentale. Su tale scenario è quasi inevitabile che le relazioni siano inconsapevolmente trattate alla stregua di oggetti e manipolate con volubilità analoga. La distorsione possibile nella costituzione dell’Altro come oggetto, è ovviamente nella reciprocità dell’esperienza. La relazione cosificata si deposita nel sentimento di sé in quanto persona, e diviene muffa, scoria pesante ma inerte. Incontriamo qui una prima accezione del costrutto vuoto.

Ma la realtà umana è estremamente più complessa. I luoghi dell’Altro e della relazione con l’Altro si embricano con una verità che rimane pur sempre invariante al di là delle trasformazioni epocali e delle localizzazioni comunitarie. Si nasce implumi, si nasce infanti, destinati a morire se non si trovano corpi ai quali aggrapparsi, corpi comunque intenzionati a trasformare la generatività in vita.  Non sto a ricordare certo conoscenze che sono patrimonio di tutti. Voglio segnalare che il familiare è la materia invariante che fonda comunque le prime trame del mentale quale materia simbolica della specie sapiens2. Le implicazioni di quanto detto sono, a mio parere, essenziali per comprendere la lacerazione antinomica che attraversa l’uomo ipermoderno. Qualsiasi sia il regime di storicità di un’epoca, qualsiasi sia il mandato di efficientistica realizzazione proposto al solipsismo dell’individuo, le matrici inveranti la persona non possono che essere nella tramatura dell’intergenerazionale, nel bonum che si tramanda, nella memoria che riorganizza il passato, dà senso al presente, permette comunque una progettualità che generi oggetti non cosificati.

Il crogiuolo familiare continua quindi ad essere quella fucina del sentimento di identità con le sue realizzazioni e i suoi scacchi che garantisce la costituzione del tempo come esperienza vissuta (Di Petta,  2009).

Mi sembra quindi di poter affermare che la caratteristica significante dell’epoca ipermoderna si configuri quale dialettica inesauribile tra la forza dei legami nell’andare del tempo familiare e la fragilità incompetente nel costruire legami nel sociale. Tale dialettica si manifesta, molto spesso, come conflitto lacerante che può risultare insostenibile, quindi evitato tramite la devitalizzazione del legame stesso. Se i legami evaporano, portandosi via nell’eclisse il senso di una storia, incontriamo una seconda caratteristica del sentimento del vuoto.

Ma dove si colloca il terreno di questa dialettica/scontro?  Ci aiuta un recente scritto di Scabini e Manzi (2010) che affronta il tema della generatività e prosocialità. Nell’andare degli ultimi quarant’anni si è profondamente modificato il rapporto tra il sociale con le sue istituzioni e la famiglia.  Non ha senso ricordare gli autori di ogni sapere umano che hanno sviscerato tale radicale trasformazione. La caratteristica cruciale di tale trasformazione consiste nella costituzione di una irriducibile discontinuità tra i due ambiti, laddove nei secoli precedenti i due ambiti si andavano intersecando, spesso fino al punto di coincidere. Non è solo una metafora il titolo di un interessante libro di Del Boca e Resina Famiglie sole (2009).

Questa discontinuità configura le due dimensioni essenziali per la competenza adulta del vivere (la famiglia e la società)[3] connesse da una territorialità per molti versi ostica, pericolosa, tutta da esplorare e significare. Un percorso possibile per argomentare questi passaggi si può trovare in Pontalti (2000). Si comprende quindi il senso del termine prosocialità quale presupposizione familiare a garantire una nuova generazione non solo affettivamente  competente, ma anche competente socialmente. Poter esistere con sentimento di valore in un sociale quale descritto da Hartog, Lipovetsky e Ehrenberg è paradossalmente un compito familiare che non è esplicitamente  riconosciuto ma subdolamente  preteso dalle  istituzioni che  guardano il  familiare stesso. Lo sguardo del Sociale sul familiare è preoccupato ma giudicante, è arcigno e indifferente. Di qui Famiglie sole. È ben documentato che l’istituzione famiglia e le istituzioni sociali hanno reciprocamente una relazione di contrapposizione paranoicale (nell’accezione di Recalcati e Rossi Monti sopra ricordata).

Come in tutte le configurazioni paranoicali la soluzione è la forza, e la dinamica del potere è oggi totalmente sbilanciata. La famiglia è l’organizzazione socio-antropologica più svantaggiata, più debole ed indifesa. I nostri paradigmi la colpevolizzano attribuendole la colpa del prodotto­figlio non ben riuscito; se i genitori chiedono aiuto ancora oggi vengono inseriti in progetti terapeutici separati dal figlio. E se protestano è la prova provata che sono inadeguati.  Qualunque psicologo o psichiatra o assistente sociale di meno di trent’anni può pontificare sulle loro competenze genitoriali.  Se desiderano un figlio con la fecondazione assistita ci pensa la gerarchia ecclesiale a bastonarli; se vogliono un figlio in adozione non bastano venticinque colloqui per definirne l’idoneità adottiva; se sgarrano, con i conseguenti provvedimenti di allontanamento dei figli, tranne rare eccezioni (Cirillo, 2009), hanno molta probabilità di non riunirsi più ai figli. Sono consapevole che ho proposto una miscellanea più evocativa che precisa, ma tutti sappiamo che ciò accade e tutti dobbiamo essere consapevoli che la famiglia è l’anello debole del sociale nelle dinamiche di potere. Mi si può obiettare che non è più così; in parte è vero che assistiamo ad uno sforzo, nelle nostre professioni, di acquisire una mentalità diversa, ma il cammino è ancora lungo.

[1] Corrado Pontalti: La nostalgia dei legami e il vuoto esistenziale: fenomenologie depressive nella civiltà ipermoderna in  – Terapia Familiare n. 94 novembre 2010

[2] CORRADO  PONTALTI: Professore di Psicoterapia e Primario  del Servizio di Psicoterapia Familiare (a riposo), Università Cattolica del S. Cuore, Facoltà di Medicina, Roma

[3] Non posso che rimandare, dandolo per noto, al grande corpus teorico e clinico sul familiare e sul paradigma relazionale-simbolico di Eugenia Scabini, Vittorio Cigoli e i loro collaboratori. Due riferimenti, per tutti (2000, 2006).