Un luogo imperfetto – Stefania Leone

“Non voglio dimenticare una frase di Parmiggiani pronunciata da Recalcati: “Camminiamo nel mondo accompagnati dai nostri morti”. È ciò che prova ogni essere umano quando deve affrontare il distacco dai suoi cari inferto dalla imprevedibilità della Morte. Anche quando essa è preceduta da una malattia insindacabile, il suo evento si palesa impossibile da ospitare. La malattia senza guarigione, la malattia che obbliga all’immobilità, la malattia che lacera il corpo, la malattia che toglie vitalità, mostra il volto di un reale impossibile da ritrarre. La malattia può preparare alla morte, ma non spiega la morte.

 

L’esperienza della perdita attraversa attualmente la mia vita. Perdere le persone più care al mondo, mi spinge a scrivere la mia sintomatica osservazione su ciò che il delicato lavoro luttuoso implica nel mio vissuto. L’immanenza dei loro corpi lascia il posto ad una trascendenza che situa, la testimonianza simbolica delle assenze, nella presenza dei luoghi, delle cose, delle persone incontrate in questo Mondo. La prima considerazione è legata alla ri-abitazione di quei luoghi in cui mi sento accompagnata dalla loro assenza. L’abitazione, dove abbiamo vissuto momenti estatici di felicità e momenti tragicamente dolorosi, mi accoglie con un altro volto. La stessa casa è una “nuova” casa. Mi ritrovo – come direbbe Recalcati – ad “attraversare e riattraversare i ricordi in un movimento spiraliforme, un passo avanti e due indietro“. Ci sono dei momenti molto precisi, rapidi, lucidissimi, in cui mi rendo conto, all’improvviso, che non li rivedrò più in questo Mondo. E non mi conforta in nessun modo, pensare che li rivedrò altrove. Il pensiero di averli persi per sempre, di non poterli più incontrare, è un dolore inossidabile. Non esiste più un tempo per noi. Il nostro tempo è scaduto. Per sempre.

Ma esiste un luogo, in questo Mondo dietro al Mondo, dove è possibile incontrarli? La casa che hanno abitato, le strade che hanno percorso, la città in cui hanno vissuto, le persone che hanno incontrato costituiscono la nuova scena del mondo in cui gli assenti trovano il modo di essere presenti. In tutti questi luoghi, in tutti questi momenti, loro continuano a vivere. Non raramente sono circondata da persone che hanno fede nell’esistenza di un altro Mondo. Per i credenti, l’aspetto puramente spirituale, si esaurisce nel credere melanconicamente, che la persona cara sia volata in cielo. La fede indistruttibile di credere che esista un luogo, lontano, che accolga i defunti e che un giorno li rincontreremo. Ma pensano anche, fermamente, che le persone care siedano ancora accanto a noi. Mi sembra una contraddizione in termini. Volano in cielo o sono ancora tra noi? Ma è questo “sedere” accanto a noi, che mi conduce a pensare, alle persone assenti, ancora presenti tra gli oggetti e negli oggetti che hanno lasciato, nelle parole di chi hanno amato, nella testimonianza di chi hanno ascoltato, nel frutto del proprio talento. Questo, a mio giudizio, è il carattere eterno dell’assenza divenuta presenza.

Sono sensibile alla sacralità degli oggetti. Passo il mio tempo a ri-sistemare la casa. In ogni gesto o movimento mi accorgo che io stessa sono una testimonianza della loro assenza. Mi sorprendo immersa tra le nostre fotografie. Mi rivedo nei loro volti. Mi ritrovo. Gli stessi oggetti, che affollavano gli ambienti, hanno cambiato posizione. Sono appesantiti da un velo di polvere. C’è sempre uno strato sottile di polvere sulle cose. Sparsi in ogni ambiente, gli oggetti “sacri” della mia famiglia, mi comunicano l’assenza di chi non può più curarli, toccarli, usarli, spostarli. In queste tracce recidive, sedimentate nella loro immediata immanenza, risiede la loro trascendenza. Si può intendere la sacralità che abita gli oggetti, come l’unicum indistruttibile, inalienabile, che tiene insieme l’immanenza della materia alla trascendenza dell’icona?

©stefanialeone2014

L’immagine dell’invisibile è nel mistero irrisolvibile delle Cose; l’immagine della morte, dell’assenza, è nella presenza del mistero delle Cose. L’assenza si concentra nell’eco di un coacervo di segni, di odori, di oggetti utili ed inutili. Ogni cosa mi riporta un pezzo della loro esistenza. Scopro, con gioia, di vivere ritrovamenti improvvisi di Cose che riemergono dall’oblio e che la memoria mi costringe a non ignorare. Il sorriso dei miei nipoti, lo stile di mio fratello, la risata di mia zia, il saluto della mia vicina di casa. E ancora: il pettine bianco, il bastone di radica, il pacco di garze, il disegno dei Faraglioni, la scatola dei timbri, la tazza di orzo bollente, i gerani rossi sul balcone, la collezione di bottoni, la spilla da balia, la penna nel taschino, il pennello per la barba, il gilet con i bottoni, le ricette in cucina, la televisione spenta, la poltrona vuota, il plaid sulle gambe, la dentiera nel bicchiere, il trapano nella scatola, la libreria da montare, il presepe da costruire, la fila in farmacia, il cinema sotto le stelle. E ancora: il profumo della cannella, le uova al tegamino, le caramelle alla menta, la torta di compleanno, l’aroma di un liquore, il rumore delle stoviglie, il passo delle lancette, i centrini di macramè, la penna che non scrive, il caffè in camera, la scatola di pastelli, il concerto di Madonna in tv, l’ultima vacanza al mare, l’incidente stradale, il corso di nuoto, tanto altro ancora. Si tratta di una catena infinita di cose che rimandano ad altre cose. Il contatto quotidiano con le nostre cose, mi indica un modo creativo di frequentare l’ombra della ferita. Questa è la forma sacra della mia preghiera”. 

Stefania Leone, L’ora blu,  https://archiste-non-solo-architettura.webnode.it/l/lora-blu2/

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Ma questo silenzioso processo è contenuto e si sviluppa in una storia di vita familiare, fatta di scambi, di legami vitali, di sentimenti di amore, che, solo se riconosciuti, favoriscono attaccamenti forti e sicuri. In tutto questo non c’è niente di automatico e di scontato. È tutto un divenire in un tempo, un intrecciarsi di relazioni che facendo sistema possono portare ad esiti diversi. Non solo amori e riconoscimenti di valore, ma anche sordità, rancori. indifferenza, misconoscimenti, freddezze, abbandoni, richieste di risarcimenti. Assenze che non diventano presenze. Si perde così anche la “sacralità delle cose” lasciate che restano mute o destinate a perdere il valore aggiunto e ridotte ad essere viste solamente come cose e oggetti di scambio o ingombranti.

Ma aggiungerei che l’assenza dei nostri morti si fa presenza viva, non solo negli oggetti lasciati nei luoghi, nella casa, ma soprattutto con l’eredità che ci lasciano, con quella parte di sé positiva che si deposita in noi senza saperlo, e che dopo con un lavorìo silenzioso riconosciamo e facciamo nostra, nuova stella polare nella navigazione nel mare della vita. Solo così i nostri morti non sono morti, ma vivono in noi compagni di viaggio rassicuranti. Morti che non parlano, che non sono seduti accanto a noi, e di cui non c’è cura e memoria, sono morti definitivamente. Sta qui la verità apparentemente incomprensibile delle parole dure di Gesù: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Matteo 6,21). “L’ereditare coincide con il lutto come lavoro, è un lavoro del lutto. E cos’è un lavoro del lutto? È riuscire a portare la memoria alla potenza dell’oblio; dimenticare i morti non perché li abbiamo cancellati dalla nostra vita, ma perché li abbiamo fatti nostri e solo in questo senso possiamo dire che abbiamo potuto dimenticarli, che abbiamo potuto lasciarli morire, lasciarli essere davvero morti”. (Recalcati, Il complesso di Telemaco, pag. 130)

Non mi lasciano indifferente queste pagine di un saggio impegnativo di Stefania Leone. Interrogano, diverse domande, alcune senza risposte per loro natura: Perchè si nasce?, Perchè si muore. L’unica risposta, la fede religiosa o la risposta filosofica o quella della scienza. Resta però il mistero, e che “Non esiste più un tempo per noi. Il nostro tempo è scaduto. Per sempre”, tanto che “mi accorgo che io stessa sono una testimonianza della loro assenza”.

Ma alla fine, forse, rimane la risposta consolatoria, che è quella più personale, perciò unica. Che è quella più antica, quella dei nostri progenitori, quando cominciano ad avere coscienza di sé e a prendersi cura dei morti con la loro memoria. È la pia illusione foscoliana di sopravvivenza temporanea, se c’è ”corrispondenza d’amorosi sensi”, se qualcuno tiene viva la memoria e gli affetti, specialmente quelli familiari. Solo così l’assenza di chi ci ha lasciato diventa una presenza. Allora le cose acquistano nuovo senso, dolce nostalgia, memoria viva.

Ma questo silenzioso processo è contenuto e si sviluppa in una storia di vita familiare, fatta di scambi, di legami vitali, di sentimenti di amore, che, solo se riconosciuti, favoriscono attaccamenti forti e sicuri. In tutto questo non c’è niente di automatico e di scontato. È tutto un divenire in un tempo, un intrecciarsi di relazioni che facendo sistema possono portare ad esiti diversi. Non solo amori e riconoscimenti di valore, ma anche sordità, rancori. indifferenza, misconoscimenti, freddezze, abbandoni, richieste di risarcimenti. Assenze che non diventano presenze. Si perde così anche la “sacralità delle cose” lasciate che restano mute o destinate a perdere il valore aggiunto e ridotte ad essere viste solamente come cose e oggetti di scambio o ingombranti.

Ma aggiungerei che l’assenza dei nostri morti si fa presenza viva, non solo negli oggetti lasciati nei luoghi, nella casa, ma soprattutto con l’eredità che ci lasciano, con quella parte di sé positiva che si deposita in noi senza saperlo, e che dopo con un lavorìo silenzioso riconosciamo e facciamo nostra, nuova stella polare nella navigazione nel mare della vita. Solo così i nostri morti non sono morti, ma vivono in noi compagni di viaggio rassicuranti. Morti che non parlano, che non sono seduti accanto a noi, e di cui non c’è cura e memoria, sono morti definitivamente. Sta qui la verità apparentemente incomprensibile delle parole dure di Gesù: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Matteo 6,21). “L’ereditare coincide con il lutto come lavoro, è un lavoro del lutto. E cos’è un lavoro del lutto? È riuscire a portare la memoria alla potenza dell’oblio; dimenticare i morti non perché li abbiamo cancellati dalla nostra vita, ma perché li abbiamo fatti nostri e solo in questo senso possiamo dire che abbiamo potuto dimenticarli, che abbiamo potuto lasciarli morire, lasciarli essere davvero morti”. (Recalcati, Il complesso di Telemaco, pag. 130)

https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/quel-che-conta-nelleredita-e-la-trasmissione-del-desiderio-massimo-recalcati/

Uso di frequente in terapia un protocollo conoscitivo della qualità della relazione di Attaccamento (AAI) fra figli e genitori. E alla fine l’ultima domanda: “Che cosa spereresti che tuo figlio impari dall’avere te come genitore?” è quella forse più impegnativa che, nell’attesa silenziosa della risposta del paziente, tutte le volte mi coinvolge e mi interroga. E io cosa lascio in eredità a mia moglie, alle mie figlie e alle mie nipoti?

Domanda a cui non so e non posso rispondere. Saranno loro a darsi la risposta.