Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti Cesare Pavese

Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese – La luna e i falò

Pozzallo Torre di Cabrera 1429

“C’è una ragione perchè sia tornato in questo paese, qui non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra, né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere ». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto?
Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più di un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già.
C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella – due stanze e una stalla – la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello.
Da quell’inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi.
Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze.
[…]
Cosi questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho-visto davvero e-so ch’è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Che un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

Commento

Sono quasi sessant’anni che non vivo più nel mio paese natio, e quando ci ritorno, mi fermo per oltre due mesi. Ritrovo i miei amici di un tempo, riparlo con la mia lingua natia e familiare, il dialetto siciliano, gusto le pietanze familiari di mia mamma. Ritrovo qui le mie radici, anche se i tempi e i modi di vivere sono cambiati con il cambiamento della società. Non ho voglia di fare corse inutili, insignificanti, ma rimango fedele alla storia vissuta fra le mura della casa dei miei nonni. Qui riconosco il debito con mio padre e mia madre, anche se ora la casa non è più quella che hanno costruito i miei nonni, abbattuta per creare nuovi appartamenti per i figli.
Mi riconosco in quello che scrive Pavese:
“Che un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”
È un rivedersi nei luoghi dove si è cresciuti, un ricordare fatti e occasioni importanti e significativi della crescita e del diventare adulto, incontrarsi con gli amici dell’adolescenza, delle scuole frequentate, ritrovare gli spazi dove si andava a giocare, anche se oggi sono modificati. Immagini, storie eventi che si sono depositati nella memoria, rinnovata dalla presenza dei segni di una continuità silenziosa della storia familiare.
Vero che oggi girare il mondo, specialmente se per lavoro, è una esperienza sempre più diffusa, o per necessità o per curiosità o per moda, si cambia casa e paese, comunque estraneo fra estranei:
“ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più di un comune giro di stagione”
Mettere radici e farsi terra nel nuovo paese è la storia di tanti emigrati per necessità che si riconoscono, si cercano per farsi paese spinti dalla nostalgia, dal dolore della lontananza del paese natio, dove ritornano quando possono. Così anch’io mi sento novello emigrante e quando posso ritorno al mio paese per ritrovare le mie radici, le “ossa” dei miei familiari dei nonni, dei genitori, dei fratelli tumulate in edicole familiari, tanto che il cimitero appare al visitatore un paese silenzioso con vicoli e strade “per ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere ».

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