Una conversazione con Eugenio Borgna – – – – Anna Stefi

 

 

L’occasione di questo dialogo è l’uscita di due libri, uno dedicato alla tenerezza, l’altro rivolto all’amicizia. L’amicizia come luogo in cui la tenerezza abita.

Ho ascoltato la voce di Eugenio Borgna: il tono, le parole scelte, i silenzi e l’onda del suo dire. Anche i colpi di tosse. Ho dovuto, davanti ai miei fogli di appunti e al timore di affaticarlo, trovare un compromesso tra il mio “ancora” e la sua generosità.

Ma c’è anche un’altra occasione: che uso facciamo delle parole? Siamo costantemente sottoposti a un dire offensivo, mistificatorio, feroce. Vale ogni cosa, tutto può essere detto e ritrattato. La meritocrazia a celare il classismo, la fascinazione per un’ironia dozzinale, il cinismo come intramontabile moda e nessuna intelligenza del cuore.

Cosa può dunque insegnarci Eugenio Borgna, cosa possiamo provare a reimparare a partire dallo sguardo di un uomo che ha trascorso la propria vita ad ascoltare la sofferenza psichica? Perché questa porta può aiutarci a illuminare la nostra interiorità mostrandoci l’urgenza non solo di una parola che cura – che potrebbe non riguardarci – ma anche di una cura della parola.

Stefi     Ho letto i suoi ultimi due libri e mi pare che le pagine dell’uno risuonino nelle pagine dell’altro e che entrambi non siano che un ulteriore tassello di quel mosaico di emozioni, legami, vita interiore, che ci restituisce in forma scritta nei suoi libri, per le quali trova le parole – facendo ricorso spesso ai versi dei poeti. Percorre i territori del sentire umano, e lo fa con lo sguardo di una vita che, a partire dalla nomina a direttore del manicomio femminile di Novara, ha incontrato dei volti, delle storie, una sofferenza a volte dicibile e altre volte senza voce. La psichiatria, insomma, come porta d’accesso all’interiorità. Ritorna del resto, in questi e altri suoi testi, l’invito a sentire la follia nella sua vicinanza, sentirla come una possibilità umana, “infelice sorella della poesia”.

Borgna       Sì, la mia vita si è svolta scandita essenzialmente da quella che è stata la vita di persone che hanno sofferto, sofferto in modi diversi, ma essenzialmente di quella sofferenza che chiamiamo sofferenza psichica. Le parole in psichiatria, e non solo in psichiatria, hanno grande importanza, sono davvero creature viventi: se parlo di “follia” mi confronto con un’esperienza dolorosa che posso accogliere, se parlo invece di “pazzia” istantaneamente le cose cambiano, la mia accoglienza di chi sta male viene limitata enormemente. Le parole in psichiatria hanno questa importanza decisiva, che è anche quella che ci accompagna nella vita, ma non sempre siamo consapevoli del fatto che scegliere questa o quella parola significa allargare gli spazi della speranza oppure chiuderli.    

Umberto Veronesi ha scritto qualcosa che vale non solo per l’oncologia, ma anche per la psichiatria: alcune parole dovrebbero scomparire dal nostro linguaggio. Lo diceva in riferimento alla parola “cancro”. Le parole con cui noi esterniamo i nostri sentimenti, e le parole che ci vengono dette, hanno una importanza enorme. Questa tesi che la follia può anche essere la sorella infelice della poesia certo non può essere espressa dimenticando l’angoscia, il dolore, la disperazione che la follia racchiude, ma possiamo cogliere nella follia quello che è anche in noi, possiamo sentire in quale area della nostra vita la follia nasce e poi muore; ed ecco che, così, noi facciamo una psichiatria umana, una psichiatria gentile che cerca di lanciare ponti tra la nostra vita quotidiana e la vita ferita dal dolore.

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Commento

Le parole in psichiatria, e non solo in psichiatria, hanno grande importanza, sono davvero creature viventi”.

E questo vale anche in psicoterapia, pratica in cu si usano fondamentalmente le parole. Usare una parola al posto di un’altra, un modo di dire e di esprimersi inappropriato anche senza consapevolezza, o non accorgersi che l’altro interpreta la mia parola in maniera distorta, a lungo andare può portare alla fuga, all’abbandono della terapia. Rischio sempre presente e molto più frequente di quanto si è disposti ad ammettere per non compromettere l’immagine professionale.

Se volessi cantare vittoria la mia lista dei casi positivi di cui ho certezza e conferma sarebbe estremamente povera. E’ vero anche, ad onor del vero, che della stragrande maggioranza non si sa più niente.

Ma casualmente oggi leggevo una pagina del libro di James Hillman, storico psicoterapeuta, Le Storie che curano, quasi provocatoria:

“Ormai sappiamo che la psicoterapia è inutile: raramente i sintomi ne sono guariti, difficilmente i matrimoni salvati, gli impieghi trovati; dipendenze, depressioni, suicidi, non sono evitati. I miei colleghi mi rammentano le statistiche, secondo cui per chi ha avuto un trattamento psicologico e per chi è invece stato curato con farmaci o lasciato a se stesso, il risultato è più o meno il medesimo. La remissione spontanea (l’espressione con cui ora chiamiamo la “grazia”) non è stata incrementata dalla psicoterapia. Per di più, non sono stati ancora stabiliti punti fermi per la “salute mentale”, e nemmeno abbiamo un’opinione concorde sul “disturbo mentale”. Perché dunque gli analisti perpetuano la finzione di essere impegnati in un trattamento dei disturbi psicologici, usando modelli medici e nozioni progressiviste di salute, sviluppo, maturità? Perché non ammettere la finzione della guarigione, e che la guarigione è una storia di copertura? Perché non partire dal presupposto dell’inutilità, e vedere dove quest’idea ci porterebbe?”

 Affermazioni provocatorie del fare psichiatria e psicoterapia, ma che nello stesso tempo sono una indicazione di battere altre strade se si vuole essere di aiuto ad una persona sofferente, non di un male fisico, ma di un male dell’anima. Un male sottile, in parte invisibile, silenzioso, sopportato, indicibile fino ad esplodere nell’urlo. E non servono ricette mediche, manuali diagnostici, classificazioni psichiatriche se poi si trascura la cura più importante: l’ascolto dell’altro e del suo mondo emozionale, sentimentale, relazionale, affettivo, che è anche e soprattutto il mondo della poesia. Così continua  Hillman:

Questo “fare”, fine a se stesso, i greci lo chiamavano poiesis. La psicoterapia è allora una sorta di poesia? È forse questo il modo migliore di immaginarla?

Questa conclusione è quasi la stessa a cui fa riferimento Eugenio Borgna che:

la follia può anche essere la sorella infelice della poesia,ma possiamo cogliere nella follia quello che è anche in noi, possiamo sentire in quale area della nostra vita la follia nasce e poi muore.

Come dire che possiamo capire e aiutare il paziente se riusciamo, noi terapeuti, a metterci in sintonia con il suo dolore, solo così noi “possiamo cogliere nella follia quello che è anche in noi, possiamo sentire in quale area della nostra vita la follia nasce e poi muore”. Se si riesce ad assimilare la psicoterapia ad una attività artistica come la poesia per cui: “Ci impegniamo nell’arte per amore dell’impegno”