Una conversazione con Eugenio Borgna – Parte seconda – Anna Stefi

Anna Stefi

Costruire ponti relazionali

Una conversazione con Eugenio Borgna

Anna Stefi

Parte seconda

Borgna  . La carezza aggiunge qualcosa alla vita, al dialogo con le persone che incontriamo. La carezza rompe le solitudini in cui viviamo, in cui siamo imprigionati. Le lacrime, e il sorriso, sono due modelli di vita apparentemente lontani l’uno dall’altro, ma in realtà entrambi raccontano l’interiorità, la partecipazione vivente che ci consente di entrare in relazione con l’interiorità dell’altro. Fermare le cose che ci diciamo, anche ora. Non dobbiamo dimenticare che ogni colloquio, ogni dialogo, ogni ascolto, sopravvivono all’oblio solo se, quando incontriamo un’altra persona – come io ora incontro lei –, sappiamo dare voce a una visione del mondo che parta dall’interiorità. Questo è il “costruire i ponti” di cui parla Maria Zambrano.

I ponti si creano quando sappiamo intuire le parole necessarie per entrare in contatto con quel “tu” che abbiamo davanti. Sono sempre le parole che danno vita all’interiorità: se le mie parole sono aride, o scolastiche, se sono quelle di una psichiatria fatta di silenzio, di incapacità di cogliere la fragilità delle persone, la vita e l’anima ferita e insieme la speranza che attraversa la sofferenza psichica, non sapranno mai costruire un dialogo.

Le parole in cui siamo immersi sono un mare immenso, come cogliere qualcosa? Tenere a mente che è l’anima delle parole che ci consente di capire gli altri, di essere d’aiuto agli altri. Posso conoscere tutti gli psicofarmaci di questo mondo – sono anche pochi –, ma se questi non sono immersi in una disperata ricerca di dialogo e di ascolto ritorneremo a quel modo di pensare la psichiatria antecedente alla grande rivoluzione che dobbiamo a Franco Basaglia.

3 ottobre 2022

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Commento

“I ponti si creano quando sappiamo intuire le parole necessarie per entrare in contatto con quel “tu” che abbiamo davanti”.

 Riuscire a creare ponti con l’altro con cui siamo in relazione è una capacità che si apprende con l’esperienza, non dai libri. Perché l’altro, mi ripeto, è sempre uno sconosciuto nella sua profondità e io sconosciuto all’altro, tanto più in un lavoro di psicoterapia dove le chiusure reciproche sono definite dal ruolo: tu paziente, io terapeuta. O cambiando contesto, tu alunno, io insegnante.

La domanda che ci si può fare è: serve conoscersi oltre le apparenze “per entrare in contatto con quel “tu” che abbiamo davanti”.

Cosa significa per un insegnante entrare in contatto con un alunno oltre il tempo e il modo scolastico? Trasmettere conoscenze, saperi codificati, il programma standardizzato dei libri scolastici? O anche altro? Questo altro è l’etimologia latina della parola in-signum, mettere un segno, insegnante è chi lascia un segno nella relazione con un alunno. Ognuno di noi ha memoria e riconoscenza di qualche insegnante che ha lasciato il suo segno nella nostra crescita, nel nostro modo di essere quel che siamo. Se ciò è avvenuto è perché si era creata una relazione esplicita, o implicita e silenziosa, un incontro, un ascolto.

Lo stesso succede nell’incontro terapeutico, il terapeuta lascia un segno molto più profondo di quello dell’insegnante. “Sono sempre le parole che danno vita all’interiorità”, tanto più in una relazione di aiuto, dove il paziente è uno sconosciuto per eccellenza in quanto è sconosciuto a se stesso. Non solo ma l’altro è sempre un unico non assimilabile ad un “caso” diagnostico di un prontuario medico. Conseguentemente la psicoterapia è un conoscersi reciprocamente, un venirsi incontro, un andare verso, alla ricerca della causa del malessere partendo dal sintomo. Terapeuta e paziente sono così compagni di viaggio in cui paradossalmente è il paziente quello che conduce e il terapeuta sta dietro di tre passi. Ed è un viaggio fatto di parole, di silenzi, di ascolto e di un rivedersi attento nella scena terapeutica videoregistrata.

“Una psichiatria fatta di silenzio, di incapacità di cogliere la fragilità delle persone, la vita e l’anima ferita e insieme la speranza che attraversa la sofferenza psichica, non saprà mai costruire un dialogo”

Terapeuta e paziente sono così compagni di viaggio in cui paradossalmente è il paziente quello che conduce e il terapeuta sta dietro di tre passi. Ed è un viaggio fatto di parole, di silenzi, di ascolto e di un rivedersi attento nella scena terapeutica videoregistrata nel caso di una terapia familiare.

Sembrerebbe ovvio che uno psicoterapeuta dovrebbe essere in grado di cogliere la fragilità, l’anima ferita, la sofferenza psichica di chi si affida alle sue cure e la speranza di poter uscire dal tunnel buio in cui è precipitato. Se non riesce a piangere con chi piange. Invece non è così ovvio, specialmente se è un giovane psicoterapeuta. Anche la psicoterapia è diventata un ”affare”, fatta di numeri, di tempi contingentati, di regole aride, di un apparire sociale, di un saper fare fine a se stesso.

Ho sempre in mente una mia paziente che si rivolge a me perché il suo terapeuta era sparito nel nulla, non rispondeva alle sue ripetute chiamate finché passato qualche mese ha fatto il tentativo il marito chiamando con il suo numero telefonico e la riposta è stata immediata.