UNA PASSEGGIATA
Antonio Frizzera
L’uomo e la donna avevano cenato e ascoltato musica dal vivo. Un duo, chitarra e voce, che interpretava canzoni in voga parecchi anni prima. Durante la cena non si erano scambiati che poche parole, tanto per riempire le pause di silenzio tra un pezzo e l’altro. Il resto del tempo la musica aveva coperto i loro muti pensieri, dispensandoli dal dover conversare. Nonostante questo nessuno dei due provava imbarazzo o necessità di dover ad ogni costo dire qualcosa, come, al contrario, sovente avviene per le coppie ai primi appuntamenti. Stavano bene così.
A cena conclusa, mentre i musicisti ancora suonavano, intendendosi con uno sguardo, si alzarono dal tavolo e uscirono nella piazzetta sulla quale si affacciava il locale. Appena fuori rimasero entrambi fermi per qualche attimo, ognuno girando lo sguardo attorno come non sapesse dove andare. Il lungo crepuscolo estivo concedeva ancora un tenue chiarore sui palazzi di fronte, esposti al tramonto. Sul selciato scuro invece, i lampioni già iniziavano a disegnare aloni di luce circolari e sfumati.
Poi lei si avviò lungo la via in leggera discesa che si addentrava nel borgo. Il rintocco leggero dei tacchi alti riecheggiava sui muri ma non per questo risultava invadente, risuonava morbido e calmo. Lui restava un po’ indietro, come non riuscisse a tenerne il passo: la guardava camminare. La gonna ondeggiava con movimenti regolari, accarezzando la pelle nuda delle gambe appena sopra le ginocchia. La brezza, tiepida, saliva dalla via e le avvolgeva il collo esile per un istante, rimanendo imprigionata tra i capelli, scuotendoli delicatamente, finché si liberava, portandogli il sentore del suo profumo. Rimase spettatore alle sue spalle fino a quando la donna si fermò e si girò come a dirgli: vieni, hai guardato abbastanza. Fu lei, a questo punto, che mentre lui le si avvicinava lo squadrò da capo a piedi con fare impertinente e, facendolo, arcuò le labbra a mo’ di apprezzamento, annuendo compiaciuta. Entrambi sorrisero e ripresero a camminare fianco a fianco.
La via era deserta quando un ragazzo in bicicletta li sfiorò capitando loro alle spalle, senza un cenno di preavviso. Appena superati zigzagò con maestria da un lato all’altro della strada. Udirono l’attrito degli pneumatici sui cubetti di porfido anche quando sparì dietro una curva.
Non se la sentirono di interrompere subito il silenzio che il ciclista aveva lasciato dietro di sè così continuarono a camminare, senza scambiare parola, come a preparare il terreno per un discorso importante. Invece, dopo pochi minuti, affrontarono un argomento qualunque, forse la pericolosità delle biciclette nel centro oppure il fatto che in giro non si vedeva ormai nessuno.
In breve arrivarono alla piazzetta della fontana e di lì raggiunsero il lungo viale alberato che li condusse fuori dalla città vecchia.
Lei rimpianse l’intimità che i palazzi avevano consentito e custodito, come in una stanza foderata di quadri e le imposte socchiuse. Le pareva ora che il venticello fosse meno tiepido di prima, anzi, troppo fresco e cercando il calore emanato dal corpo dell’uomo gli si avvicinava sfiorandolo e toccandolo spesso. Lui ogni volta, aveva come un sussulto e si allontanava istintivamente, poi, un po’ alla volta, si abituò al contatto e appoggiò il braccio al suo, tastando il tessuto leggero del vestito a contatto con la propria pelle.
Nel frattempo la notte aveva mascherato il loro cammino. Da un po’ rimanevano taciturni, perchè ora avevano paura di disturbare quello che i loro passi, all’unisono, in altro modo, già andavano dicendo. E lui le cinse la vita e si fermarono e si baciarono, per strada: come due quindicenni. Non sorridevano più.
Scoprivano in quel momento, l’una negli occhi dell’altro, la profondità di una promessa che avrebbe potuto durare per sempre. Tornarono a baciarsi, respirandosi e ascoltandosi, inebriati da quel sapore familiare ma rinnovato, come avessero raggiunto, lì su quel pezzo di via, la fine del cammino che coincideva con le speranze e l’entusiasmo del primo passo.
E ripresero, con lentezza, la passeggiata che li aveva condotti dentro una più intima conoscenza. I lampioni rimanevano oscurati dalle fronde rigogliose degli alberi che schermavano la luce verso il basso, creando un soffitto di bagliori sopra il viale buio. Raggiunsero una villetta in fondo al viale e lei cercò nella borsetta le chiavi di casa. Si girò verso l’uomo invitandolo ad entrare. Una volta all’interno, lui si sedette sulla poltrona in salotto in attesa di quello che sarebbe accaduto. Lei scomparve dietro a una porta che lasciò socchiusa. Dalla sottile fessura sfuggiva un chiarore caldo di promessa.
La donna, in piedi di fronte allo specchio antico, osservava concentrata il proprio viso mentre si toglieva gli orecchini.
Poi distolse da sè lo sguardo e un intimo sorriso si disegnò sul suo volto: a lato dello specchio era appesa la fotografia del loro matrimonio.
Rovereto, Osteria del Pettirosso
6 settembre 2018
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È sempre la scena finale la chiave di lettura del senso delle novelle di Antonio Frizzera.
Se dalla prima riga della novella fino alla penultima leggiamo con attenzione e curiosità quella che sembra la storia di due timidi amanti, ai primi momenti confusi del loro incontrarsi, alla fine però scopriamo che si tratta dell’incontro di un marito e una moglie, già sposati, poi separati, che nuovamente si cercano e si incontrano con rinnovato desiderio di amore.
Storia rara, finzione letteraria? Quando ci si lascia, non si torna indietro, tanto più se non ci sono figli. O è possibile allontanarsi, al bivio imboccare entrambi sentieri diversi, per poi alla fine un’altra volta incontrarsi nel silenzio? E se possibile, come è possibile e perché?
Per Antonio[1] lo è, e lo è solo se prima si è fatto uno scavo interiore sul perché della separazione e sulle responsabilità che ognuno dei due ha, comunque senza colpevolizzare.
La regola paradossale è separarsi per incontrarsi, anche se non c’è separazione fisica. Separarsi per scoprire la diversità dell’altro e dall’altro, e il vero bisogno dell’altro, dell’altro che mi manca. Separarsi per non abituarsi all’assuefazione della presenza dell’altro, ad una statica e sterile sua presenza. Su queste onde navighiamo tutti: essere diversi nel tempo che ci cambia e cambia la relazione e mantenere “la profondità di una promessa che potrebbe durare per sempre”: la promessa dell’amore. Che poi è la promessa di una presenza attenta al bisogno dell’altro, che non sempre è sicuro, forte, capace. L’inciampo è sempre possibile, la caduta è imprevedibile, l’esperienza del limite ci blocca, il nostro equilibrio psicologico è precario. Ma se sentiamo la vicinanza dell’altro che ci assiste, ci rassicura, ci aiuta a sollevarci, allora ci sentiamo più sicuri, perché possiamo contare sull’amore dell’altro, e non sentirsi soli.
Possibile allora che questa coppia “nuova” con l’allontanamento e nella solitudine abbia riscoperto il senso del vivere e un nuovo bisogno di vicinanza, rinnovando ancora la promessa senza il bisogno di dirla esplicitamente, ma comunicata con quel linguaggio dimenticato, il linguaggio non verbale, fatto di gesti, di silenzi, di sguardi, di contatti. Per reciprocamente dirsi ancora e con più consapevolezza: io ci sono. In una serata di “pensieri muti”, in una “passeggiata che li aveva condotti dentro una più intima conoscenza”.
[1] Lo chiamo con il nome come ho sempre fatto da 40 anni da quando era mio alunno.
Storia tragica, Marina, e non è unica. Sono più che convinto che la mente umana è impenetrabile nella sua complessiità.
Storia Magnifica.
Separarsi e ritornare assieme succede quando ci si lascia e uno dei due è ancora talmente innamorato dell’altro da non poterne fare a meno. Ritornare assieme ed essere innamorati come prima è più difficile. Si ha sempre paura di perdersi. Si ritorna assieme con la speranza che il rapporto ricucia le ferite. Non sempre è così. Lo dico per esperienza. Mio papà innamorato di lei sino al punto di perdonarla di accettare le sue condizioni, e stato ingannato dalle Sue promesse dai suoi baci. Si l’ha perdonata non voleva perderla dopo che si erano lasciati. Dopo che mi aveva abbandonata. Lei sapeva che lui ne era tanto innamorato da chiederli di dargli il suo cognome al figlio che aspettava senza saper con chi. In cambio lei sarebbe ritornata tra le sue braccia a donargli l’amore che Lui chiedeva. Una volta ottenuto ciò che voleva. Se ne è andata un’altra volta. Lasciandolo nella più buia disperazione. Senza voltarsi indietro senza rimorso ne per Lui ne per me. L’ho perdonata non ho dimenticato la sofferenza di papà che l’ha Amata tutta la vita. Si ho un fratello e non ci conosciamo spero solo che sia stato amato da lei.
Eulalia Cilento
Argomento molto interessante e dai molteplici aspetti…
La reciprocità dell’ intenzione di guardarsi dentro, scendendo dalla superficie al cuore, attraversando e tentando di mettere in comunicazione i diversi livelli della psiche, è tanto indispensabile, in una relazione che voglia davvero tentare l’ ascesa verso le altezze terrene di una relazione matura, quanto, ahimè rara..
Quando poi uno solo dei componenti della coppia sceglie di intraprendere un cammino di liberazione gli sguardi divergono, i linguaggi si allontanano posizionandosi su livelli, profondità, ed ampiezze totalmente differenti, e, dolorosamente, la rottura diventa inevitabile.
Giuseppe Basile
A me pare, Eulalia Cilento, che il problema del fallimento di una relazione di coppia, stia nel perché “poi uno solo dei componenti della coppia sceglie di intraprendere un cammino di liberazione”. Liberazione richiama prigione, costrizione, delusione, mancanza di libertà, mancanza di amore. Ovviamente uno ha i suoi perché, che se pur definiti ed elencati in categorie, sono vissuti con la particolarità della vita individuale. Io, da parte mia, sia per la mia storia personale, sia per la trentennale esperienza psicoterapeutica, ogni volta che mi confronto con una coppia in crisi, mi chiedo sempre perché tante coppie falliscono e tante invece hanno la fortuna di stare bene assieme. E mi rispondo che non ci sono garanzie sicure per nessuno e sono inutili i riferimenti ai manuali specialistici e le risposte pronte dei saccenti. Le coppie sono imprevedibili nel percorso che faranno, perché alcune sbandano e altre continuano sicure. Nella mia umile pratica psicoterapeutica mi dichiaro un compagno di viaggio che si affianca alla coppia per aiutarla a capire e possibilmente cambiare. La grande fatica che le coppie fanno e capire e capirsi, …. …e comunicare sui sentimenti.
Cristina Clementi
Questa grande fatica c’è anche quando un componente della coppia decide di mettere la parola “fine” e l’altro non comprende e non accetta….
Giuseppe Basile
Certamente, Cristina Clementi, perché in quella situazione c’è una doppia sofferenza in chi dei due sceglie la separazione.
Prima perché ogni separazione non è indolore, ancor più se dopo tanti anni vissuti assieme, e poi perché chi fa la scelta si colpevolizza per la sofferenza inferta all’altro “che non comprende e non accetta”.
Faccio fatica però a capire che l’altro non comprende, direi che non può non comprendere. Di solito quando la relazione entra in crisi, il primo sintomo che compare è il silenzio, l’assenza, si interrompe la comunicazione e se si parla si parla sempre d’altro. E il silenzio di coppia è eloquente, non ha bisogno di inutili parole per farsi capire e sentire la sofferenza dello stare assieme. Che l’altro che subisce la scelta della separazione e non la capisca e non l’accetti, mi pare ovvio, perché, probabilmente c’è un qualche vantaggio sconosciuto non disposto a perdere. Io credo che a questo punto è il livello di sofferenza che fa la differenza se restare o andare.
Stefania Leone
“Quando ci si lascia, non si torna indietro, tanto più se non ci sono figli. O è possibile allontanarsi, al bivio imboccare entrambi sentieri diversi, per poi alla fine un’altra volta incontrarsi nel silenzio? E se possibile, come è possibile e perché? […] Solo se prima si è fatto uno scavo interiore sul perché della separazione e sulle responsabilità che ognuno dei due ha, comunque senza colpevolizzare”. Si tratta di accettare il fallimento, mettersi in discussione. Ma solitamente è più la donna che compie questo lavoro? A mio avviso l’uomo spesso è meno incline a mettersi in discussione. Lo dico perché la donna solitamente comprende la propria responsabilità, mentre l’uomo tende a negare di averne qualcuna oppure non vuole affrontare le difficoltà che lo scavo interiore comporta. Rincontrarsi dipende invece dal lavoro di entrambi, comprendere fino in fondo il “fallimento” e capire che si vuole “ancora” stare insieme.
Giuseppe Basile
Non si può non concordare con quello che dici, Stefania Leone
. Bisogna necessariamente essere in due a fare lo stesso percorso di analisi di come la relazione è nata e del perché del suo fallimento, ognuno per la sua parte. Sarebbe un fallimento in partenza se non ci fosse questa condivisione paritaria del lavoro di scavo. Forse è anche vero che la statistica conferma che conta la differenza di genere per il diverso livello di consapevolezza e di responsabilità nel mettersi in gioco per tentare di capire sia il fallimento sia quali possibilità rimangono per concordare un altro patto di relazione. Che cioè sia la donna più capace e più disponibile a fare questa analisi, rispetto all’uomo. Ma al di là dei numeri quello che conta poi nei fatti è che una relazione è sempre unica e che non si possono fare generalizzazioni. Quello che si sa e si vede è che questo secondo patto relazionale è positivo se l’impegno e la responsabilità sono parimenti reciproci.
Non per niente io inizio il mio commento seccamente: Strana storia o finzione letteraria? Per esperienza personale e terapeutica siamo davanti all’impossibile o alla rarità. Anche se rimane sempre la speranza che una terapia di coppia possa sanare una relazione potenzialmente conflittuale, quale è una relazione di coppia. Molto dipende dal livello di conflittualità e dai tempi passati prima di iniziare una terapia. Certo è anche che la Speranza è l’ultima dea a morire, e che quindi non bisogna lasciare nulla di intentato.
Stefania Leone
Grazie per la tua risposta. Condivido. Ogni storia è sicuramente unica. Vale sempre il tentativo di provare. Senza generalizzare, cosa che tendo a non fare mai, occorre davvero molta consapevolezza e questa c’è – secondo me – solo a patto che si riesca davvero a scavare e a voler vedere l’altro, a volerlo “vedere” così com’è; ma vederlo così com’è non solo per concentrarsi sulle sue responsabilità ma saperlo accogliere nella sua imperfezione, a non vederlo come una minaccia che possa compromettere il “disegno” di una vita perfetta immaginaria che non esiste. Quindi accettare l’altro vuol dire lasciar andare gli ormeggi, le barricate e quella tentazione umana di credersi perfetti. Se accettiamo la nostra imperfezione “tutta umana” forse possiamo accogliere la nostra responsabilità e metterci in gioco.
Giuseppe Basile
“SE accettiamo la nostra imperfezione “tutta umana” forse possiamo accogliere la nostra responsabilità e metterci in gioco”. Vero è Stefania Leone
. Si dovrebbe partire da questa autoconsapevolezza, comunque necessaria per entrambi gli attori, per far nascere una nuova relazione di coppia, tenendo conto che la prima non è morta, ma superata da reciproci nuovi modi di essere e da nuovi bisogni. Tecnicamente questo è il momento del secondo contratto relazionale, quello più realistico, in cui i due si vedono per quelli che sono, abbandonano l’immagine idealistica di sè e dell’altro. Passando così dalla fase della illusione alla fase della delusione per uscirne con un un nuovo impegno realistico che guardi al vero bsisogno dello stare assieme: il bisogno d’amore. Questa secondo me è la carta vincente!
Giuseppe Basile
Grazie, Stefania Leone, dell’utile confronto