Un’esperienza tanto comune quanto rara e difficile
Pierre Zaoui
“Aprire le porte che conducono all’invisibile, o più esattamente all’inappariscente, significa aprirsi a un’esperienza tanto preziosa quanto rara e difficile. Il problema principale consiste tuttavia nel comprendere per quale ragione, se una tale esperienza si rivela così preziosa, si deve allo stesso tempo ammettere che è rara e difficile. […]
Ovviamente, ritroviamo subito tutte le varie ragioni politiche già menzionate: come riuscire a farsi discreti in società dove praticamente tutto, dal mondo dell’impresa al mondo dell’arte, passando per la televisione e i social network, è lì a ricordarci che essere è unicamente essere percepito? Ma ragioni simili rimangono insufficienti, tanto siamo ancora lontani dal vivere in pure società dello spettacolo: potremmo anzi scommettere che, malgrado tutti gli sforzi di coloro ai quali un sistema simile conviene, i drogati dell’immagine e del desiderio di apparire a ogni costo restano largamente in minoranza. Perché televisione e social network sono un po’ come la musica di sottofondo: non basta sia accesa perché la gente la guardi, non è perché si comunica su Facebook che ci si interessa gli uni agli altri.
In compenso, esiste una ragione in un certo senso ben più semplice, ma anche molto più radicale, per spiegare forse meglio una simile difficoltà: il fatto che un’esperienza di questo tipo è a priori assai poco desiderabile. Più precisamente, sembra stregata, o comunque a rischio di capovolgersi in ogni istante nel suo contrario. Scomparire è una pace inaspettata? D’un tratto, però, a essa si mescola l’angoscia di non vedervi che un comportamento regressivo e perverso, quello di ricominciare con il vergognoso godimento di guardare dal buco della serratura fino a fare del mondo intero un enorme peep show (to peep, in inglese, significa «sbirciare»): e sotto questa angoscia spunta una seconda forma di angoscia, più profonda, […], ovvero l’angoscia che la nostra delicatezza discreta sia solo il paravento di una debolezza più originaria; […]
D’un tratto sentiamo rimontare in noi la nostra terribile timidezza infantile e il suo corteo di vergogne, di intenzioni incompiute, di sofferenze. […] In una sola parola, è davvero impossibile interpretare in modo univoco i nostri desideri e le nostre esperienze di discrezione, e non sappiamo mai in anticipo se in essi ci si eleva e rigenera, o se ci si logora e mortifica.”
Pierre Zaoui, -L’arte di scomparire – Vivere con discrezione – Il Saggiatore
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Ma quanto, mi son chiesto leggendo questa pagina, l’arte della discrezione, l’arte dello scomparire, dell’essere fuori del mondo affollato, dell’essere capace di ritagliarsi un angolo privilegiato da cui guardare lo scorrere della vita senza essere visto, anche se non in modo permanente (sarebbe allora una patologia), è veramente una scelta consapevole e non invece un ritiro, un mettersi da parte forzato da una difficoltà, da una incapacità, da una limitazione psicologica personale? E che quindi la discrezione non sarebbe tanto una nobile arte da coltivare, quanto piuttosto una difesa, un prendere la distanza per non essere toccato da ciò che non siamo in grado di affrontare?
La verità è probabilmente nel nostro essere combattuti da due movimenti psicologici contrapposti, da una parte dal bisogno e dal sottile desiderio innato di essere guardato e riconosciuto dagli altri, dall’altra dalla paura depressiva di non essere visto, di non essere in grado di farcela, per scarsa autostima, di affrontare la scena, di salire sul palco. Perciò faccio mia la conclusione della pagina: “è davvero impossibile interpretare in modo univoco i nostri desideri e le nostre esperienze di discrezione, e non sappiamo mai in anticipo se in essi ci si eleva e rigenera, o se ci si logora e mortifica”.
Ma rileggendo oggi la pagina riconosco, almeno per me, un’altra ragione all’apparire visibile, anche se con discrezione: quella di lasciare traccia di sé e di non scomparire definitivamente, quella di essere testimone e lasciare testimonianza in chi è vissuto con noi. All’obiezione che si potrebbe farlo con scrittura privata, rispondo che allora sarei ancora, come diceva mio padre, a “Caro amico”, formula antica con cui si iniziava a scrivere una lettera, quando era l’unico strumento di comunicazione privata. E l’essere fermi a Caro amico, significava incapacità di andare avanti, o svogliatezza, o blocco, o inconcludenza. E tutto restava sospeso rimandando al domani. Ho fatto tesoro di questa testimonianza di mio padre, quando mi sono accorto che passavano mesi ed anni nel mettermi alla prova, allora ho escogitato l’idea del gruppo privato sul WEBi in cui comunicare sistematicamente e formalmente argomenti di psicoterapia, ma alla fine il più delle volte volutamente parlo di me.
Nella speranza di essere di aiuto ad altri.