L’eredità come riconquista

L’eredità come riconquista

Massimo Recalcati

“Nel suo testo-testamento, rimasto incompiuto, intitolato Compendio di psicoanalisi, l’ultima parola del padre della psicoanalisi è dedicata non casualmente al tema dell’eredità. Freud cita un celebre detto di Goethe: “ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero“. L’atto dell’ereditare viene qui definito come una riconquista. Per ereditare qualcosa dall’Altro, per essere davvero un erede, non è sufficiente ricevere passivamente un’eredità già costituita, ma è necessario un movimento soggettivo di ripresa, di soggettivazione del debito. Senza questo movimento di ripresa del passato che ci costituisce, senza questo doppio tempo in cui dobbiamo fare nostro ciò che è già stato nostro, dove dobbiamo ripetere proprio ciò che ci ha costituito, non si dà alcuna esperienza soggettiva dell’eredità. L’eredità non è mai per natura, per destino o per necessità storica. Non è un’obbligazione, sebbene implichi un vincolo, un debito simbolico. Se l’eredità è un movimento soggettivo di riconquista del proprio essere-stato, essa non definisce solo un evento di discendenza, ma è la stoffa stessa di cui è fatta la realtà dell’esistenza soggettiva.

[….]. È questo il debito simbolico che li vincola all’Altro. Anche per questa ragione l’eredità non è in nessun caso una rendita. Erede non è colui che incassa dei beni o dei geni dell’Altro; la rendita autentica non è un fatto di sangue o di biologia. E’ ciò che Cristo prova a spiegare a un Nicodemo esterrefatto: se vuoi davvero nascere non basta la tua prima nascita, quella biologica, ma devi nascere una seconda volta. Non più dal ventre di tua madre spiega con calma Gesù. La seconda nascita, quella che investe il problema dell’ereditare, è una conquista della soggettività. Questo significa che la prima nascita, quella della carne e del sangue, non è mai sufficiente a rendere una vita umana. La vita non si umanizza ricevendo il suo corredo genetico o le rendite economiche a cui ha diritto, ma facendo davvero proprio tutto quello che ha ricevuto dall’Altro, soggettivando la sua provenienza dall’Altro, il debito simbolico che a esso ci lega. […]

Per rinascere una seconda volta, come Gesù invita il filosofo a fare, è necessario il lievito del desiderio. È necessario l’incontro col desiderio dell’Altro. Questo incontro non è garantito dalla stirpe, né tanto meno dalla memoria storica del passato. […]

La riconquista dell’ereditare non è mai un “fare proprio” nel senso dell’appropriazione di sé, del rendere omogeneo, dello smussare l’alterità impropria dell’Altro, quanto piuttosto riconoscere la nostra provenienza e il debito simbolico che essa implica. L’eredità non è l’appropriazione di una rendita, ma è una riconquista sempre in corso. Ereditare coincide allora con l’esistere stesso, con la soggettivazione, mai compiuta una volta per tutte, della nostra esistenza. Noi non siamo altro che !’insieme stratificato di tutte le tracce, le impressioni, le parole, i significanti che provenendo dall’Altro ci hanno costituito. Non possiamo parlare di noi stessi senza parlare degli Altri, di tutti quegli Altri che hanno determinato, fabbricato, prodotto, marchiato, plasmato la nostra vita. Noi siamo la nostra parola, ma la nostra parola non esisterebbe se non si fosse costituita attraverso la parola degli altri che ci hanno parlati. […]

Una vita non è che questo apprendere a parlare la propria parola attraverso la parola degli altri. L’ereditare non può essere allora la cancellazione di questa parola e di questa memoria dell’Altro – del debito simbolico che a esso ci vincola -, ma nemmeno la sua ripetizione passiva. L’eredità, ci dice Freud attraverso Goethe, è l’effetto di una riconquista di ciò che è stato, è il prodotto di una scelta, di una assunzione soggettiva di tutta la nostra storia che è, innanzi tutto, la storia dell’Altro.

Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco,

 

Commento

“Che cosa spereresti che tuo figlio impari dall’avere te come genitore?”

E’ l’ultima domanda di una intervista clinica sul legame di attaccamento fra genitore e figlio, conosciuta come AAI. Ma che in genere mette in difficoltà il genitore, perché racchiude la speranza che qualcun altro, il figlio, possa ereditare una parte di sé positiva e, con questa e per questa, essere ricordato, continuare così in qualche modo a vivere e sopravvivere un pò di più del tempo concesso.

E tutte le volte, di fronte al silenzio momentaneo dell’altro che mi sta davanti, non posso non pensare a me stesso come genitore e come figlio. Nel mio silenzio interiore non posso non chiedermi: ”E io cosa sono stato capace di tramettere alle mie figlie come eredità, cosa avrò consegnato di significativo? E ancora, prima di tutto, come figlio, cosa ho ricevuto come eredità da mio padre e mia madre?” Domande cruciali che forse ci siamo fatti e che comunque prima o poi dovremmo farci.

E quello che vale per i genitori vale anche per gli insegnanti. Se riconosciamo di non aver ricevuto nulla come alunni nella relazione con gli insegnanti, questi saranno presto dimenticati, perché incapaci di lasciare un segno (da insignere latino) della loro presenza nella storia degli alunni. E se io sono quello che sono, è perché riconosco nella mia storia scolastica e formativa dalle elementari all’università solo quattro insegnanti, verso cui ancora tuttora mi riconosco debitore.

E’ comunque più facile riconoscere quanto abbiamo ricevuto dagli altri che ci sono più vicini, che non quello che abbiamo noi trasmesso e dato in eredità. Perché noi abbiamo consapevolezza di quanto abbiamo ricevuto e si è depositato, ma non sappiamo quanto e che cosa abbiamo trasmesso. Perché l’eredità abbia un significato vitale per noi, ci tocca non solo riconoscerla passivamente o ripeterla come uno stanco rituale, ma soprattutto, come dice Recalcati, riconquistarla, farla propria e rilanciarla attivamente e dinamicamente. Sta qui il senso dell’affermazione di cui parla quando dice che “è necessario l’incontro col desiderio dell’Altro.” Come genitori siamo l’Altro che ha un desiderio da tramettere, desiderio di vita, che deve incontrarsi con il desiderio del figlio di voler far proprio, se lo riconosce, il desiderio del padre. Così si crea il vincolo simbolico fra le generazioni, in mancanza del quale siamo destinati a morire senza memoria.

E’ questo l’appello e il desiderio che mio padre mi fece, qualche mese prima di morire a 90 anni: “Non scordarti di me”, di quello che ti ho dato, di quello che ti ho trasmesso, anche se senza saperlo e senza saperlo.

 

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