E sì, il Padre, la Madre, la Sorella. Rimangono come parola sotto la «lingua» – Caramore

E sì, il Padre, la Madre, la Sorella.

Rimangono come parola sotto la «lingua».

 

 

Alla cena del cuore invitiamo le persone che ci sono più care.

Che possano sempre dividere il pane e l’acqua, o il vino, con noi.

Non è necessario che ci siano sempre,

vere e vive e concrete, attorno a un tavolo.

Magari sono lontane, o sono andate via.

Ma se pensiamo a loro, se ci sono necessarie,

è come se le invitassimo ancora e ancora

a mangiare con noi, a restare con noi…..

Emily Dickinson

 

E sì, il Padre, la Madre, la Sorella. Rimangono come parola sotto la «lingua». Rimangono come memento di tutto quello che abbiamo ricevuto, che non si è riusciti a fare, che non si è riusciti a dire, di una avarizia orgogliosa del cuore che si sarebbe dovuta sciogliere molto prima. O almeno appena un po’ prima.

Come mai, mi interrogo, ho chiesto così poco a mio padre dei suoi pensieri, di che cosa lo attraversava quando taceva, oppresso dal mondo, e forse anche da noi? E di che cosa il suo cuore rideva? Perché so così poco della sua vita, dei suoi affetti familiari, dei suoi anni giovani, delle fatiche nella guerra, del suo lavoro, di come ci viveva davvero, noi, il suo piccolo nucleo domestico? Quale segreto interdetto mi ha trattenuta dal chiedere?

E che cosa mi ha trattenuta dal voler sapere di più di mia madre, la sua complicata famiglia, i suoi amori di ragazza, e anche la vita agiata, e divertita, e molto anche sofferta, prima che arrivassimo noi? Perché non ho decifrato i silenzi che velavano la sua bella fronte quando, dopo il riposo, sostava a lungo, tacendo?

E con la sorella, qual è il motivo per cui è mancato quel confidarsi, quell’aprirsi, che talvolta avrebbe potuto dare sollievo? Forse, chissà, a volte passano più cose nelle assenze che nelle presenze.

Sì, rimangono, «sotto la lingua». E tornano. Tornano a far parte della nostra quotidianità più intima, privata. Per sempre. Cioè, per quel tanto che resta.

Gabriella Caramore, L’età grande, Riflessioni sulla vecchiaia Garzanti

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Commento

Faccio mia questa pagina, e forse rispecchia l’esperienza di quanti la leggono. Quanta vita vissuta in famiglia con tante parole rimaste “sotto la lingua”, non dette, senza averne il coraggio di chiedere il perché e il come. Ma perché questo silenzio generalizzato tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle? Probabilmente perché quando si cresce e si entra nell’età adolescenziale i confidenti sono i compagni e non più i genitori o i fratelli/sorelle. Si percepisce allora la distanza emotiva, relazionale e comunicativa fra il mondo degli adulti e quello adolescenziale. Noi adolescenti sentivamo il bisogno di fare gruppo, di riconoscere e apprendere lo stile per crescere e capire problemi nuovi. La consapevolezza della diversità del tempo di prima e quello del dopo ci aiutava a fare gruppo e vivere in gruppo, e qui fare nuove esperienze e nuove conoscenze. Si rientrava a casa si studiava, si mangiava e si andava a dormire. Era il tempo in cui non c’era ancora la Tv in casa.

Oggi invece si assiste ad un cambiamento epocale e familiare. Oggi i ragazzi stanno in casa, chiusi nella propria camera con l’immancabile cellulare fra le mani. Addirittura, fanno colazione in gruppo con il cellulare, come si lamentava una madre con una figlia di dieci anni, e incapace di farglielo spegnere. I genitori sono genitori quasi di figli unici e falsamente si fanno “amiconi” con il figlio adolescente, annullando quasi la diversità anagrafica, convinti, che essere come i figli, faciliti la comprensione e la relazione.

Per tutto questo penso che, se non c’è stata una vera comunicazione prima, diventa difficile recuperarla dopo. Incapaci di comunicare i genitori, incapaci saranno a loro volta i figli che non hanno bisogno di un finto genitore.

D’altra parte, genitori si diventa, non si nasce. Ogni genitore è stato figlio di un padre e di una madre con una sua storia di eventi, di vissuti, di fallimenti, di mancanze, spesso senza conoscerla, e che senza saperlo ”segna”, tramettendola senza volerlo. Resta il vuoto, il non detto, il silenzio depositato nella storia del figlio.

Solo a tempo quasi scaduto, si percepisce che “a volte passano più cose nelle assenze che nelle presenze”.

Così è stato per me, quando mio padre, pochi mesi prima di morire, mi fa una richiesta impensata e inaspettata. Rompe in una serata estiva il suo silenzio emotivo di una vita intera, rivelandomi il suo desiderio di non essere dimenticato: “Mi raccomando, non ti dimenticare di me”. Lasciandomi così una eredità viva, una presenza con cui dialogo, nonostante l’assenza.