Incontro familiare mancato – Giuseppe Basile

Incontro familiare mancato

Giuseppe Basile

Facendo ordine nei miei scritti, mi sono imbattuto in questa lettera scritta ai figli di una mia carissima amica che quasi alla fine della sua vita avrebbe voluto veder pace in famiglia.

***

Solo questa sera ho visto il giro di risposte e precisazioni che ognuno di voi ha fatto sulla proposta di F. di un incontro familiare. Incontro che da tempo avrei suggerito a F. durante i colloqui, che a fasi alterne e senza continuità di sorta, ho con lei ormai da diversi anni, e soprattutto in questi ultimi anni. Sono stati colloqui un pò ibridi, né terapeutici, perchè non avrebbero potuto esserli, né semplicemente sfoghi amichevoli, perchè sarebbero stati improduttivi.

Per mia scelta non mi sono tirato indietro di fronte alla sua richiesta di ascolto. Per cui più correttamente li potrei definire momenti di ascolto partecipato e attento dei dolori di un’amica, a cui mi lega una storia di quasi 40 anni. Certamente alle prime richieste avrei potuto/dovuto indirizzarla verso un professionista che la prendesse in carico, ma non me la sono sentita di farlo per una serie di ragioni tecniche ed etiche, anche se poi di fatto lei l’ha fatto di sua iniziativa sporadicamente. Ma come ero, e sono convinto, senza grandi esiti positivi.

La natura dei suoi problemi erano e sono tali che l’indicazione avrebbe dovuto essere una terapia familiare o una terapia individuale per altri suoi problemi, ma sul territorio non conoscendo professionisti affidabili tali a cui indirizzarla, come se fosse mia madre, mi sono astenuto, forse deludendola un pò. Così, come d’altra parte ho fatto di recente, quando mi ha chiesto un nome di uno psichiatra a cui voleva rivolgersi per ridurre lo stato acuto del suo star male.

Altra ragione di questa mia astensione è più tecnica, perchè i cambiamenti sono meno facili ad una età, in cui il tempo si configura e si percepisce come tempo di bilancio di vita e quindi i problemi hanno una valenza esistenziale più che psicologica o psicopatologica.

Apparentemente, sia io che lei, eravamo e siamo accomunati dall’impotenza sconsolata, ognuno per la sua parte, ma per me la via d’uscita era ed è quella più naturale, o almeno dovrebbe essere più naturale, anche se poi professionalmente so che raramente è tale: ed è il rientro in famiglia, nella famiglia psicologica delle relazioni, nell’attivazione della comunicazione emotiva, unico strumento che ci fa star bene, perchè ci fa sentire più vicini e appartenenti ad una storia comune. Di questo sono convinto e per questo ho sempre insistito con lei nel farsi promotrice di una simile occasione, anche se lei ha sempre ritenuto impossibile o difficile, o forse ormai inutile.

E poi mi diceva e si diceva: cosa dovrei dire ai miei figli, che magari ci sarebbero stati male? Come se fosse stata una partita impossibile da giocare a tempo ormai scaduto, come mi pare che anche E. pensa fra le righe del suo messaggio. E’ vero che con il tempo che avanza sempre più velocemente le occasioni si riducono altrettanto velocemente, fino ad accorgersi alla fine di non aver potuto dire o fare quello che si sarebbe dovuto dire e fare fra di noi-famiglia. O che siamo vissuti per una parte della nostra storia come sconosciuti, estranei l’uno all’altro.

Ma poi quale sarebbe questa partita? E’ una partita lunga, lunga quanto la vita, o ancora più lunga, perché abbraccia altre storie e altre vite di chi ci ha preceduto, o che non abbiamo conosciuto, ma la cui presenza invisibile ci accompagna. E io la chiamo la partita della riconciliazione e dell’amore, la partita dei conti che non tornano.

Mi chiedo: è giusto che uno scompaia portandosi dentro i suoi segreti, parlo almeno dei segreti condivisibili, con l’amarezza di non sapere quello che si lascia ai figli? D’altra parte, sono convinto che c’è sempre tempo per tentare di far quadrare i conti, perché questo ci fa star meglio, se non altro perché ci rasserena.