Un’ipotesi teorica e pratica di psicoterapia relazionale Miguel Benasayag, Gérard Schmit

Nel servizio di psicoterapia del bambino e dell’adolescente in cui lavoriamo, abbiamo cercato di sviluppare, con i nostri colleghi, le basi di questa clinica. […] Il perno di questo dispositivo è il confronto terapeutico con il bambino inscritto nelle sue relazioni familiari. Il dispositivo si fonda sull’idea di “direzione della cura”, cioè sull’impegno del medico, in quanto professionista ma anche in quanto persona, ad accompagnare il gruppo genitori-bambino per tutta la durata – breve o prolungata – del percorso di cura del bambino. Come vedremo, questa funzione, piuttosto complessa, si basa sull’incontro, sull’instaurazione di legami e su un lavoro di creazione comune di pensieri e di rappresentazioni che favoriscano l’emergere di progetti e di orientamenti, ovvero di una direzione della cura intrapresa.

1. Il primo sforzo – e qui non c’è niente di originale – è quello di spostare l’attenzione dal sintomo per entrare nella ricchezza di ciò che lo determina e creare anche qui nuovi legami di senso, relazionali ma anche temporali, mettendo in luce la complessità del sintomo e la sua importanza per il paziente e per le persone che lo circondano. Cerchiamo così di discostarci da una clinica puramente sintomatica e fondata sulla classificazione, quale quella che, come abbiamo visto, si vorrebbe imporre mediante il paradigma sintomo-bersaglio-farmaco. Paradigma sostenuto sia da coloro che vogliono risparmiare sia da coloro che vogliono ricavare profitti, a dispetto di un atteggiamento realmente psicoterapeutico, capace cioè di creare legami tra le persone. In effetti abbiamo constatato che le famiglie in crisi (che-hanno dei problemi o che per lo meno vengono catalogate come problematiche) finiscono pian piano per assomigliare a questo insieme disparato e disperso di sintomi di vario genere. A questi sintomi corrispondono una moltitudine di tecnici che generalmente non si conoscono e non coordinano le loro azioni. Questa dispersione dei sintomi e dei problemi dei pazienti non è il semplice risultato di una mancanza di coordinamento, ma rivela piuttosto una certa concezione della presa in carico dell’individuo, in cui l’individuo stesso viene sezionato e visto come un catalogo di sintomi. Ma come è possibile aiutare e comprendere qualcuno se lo si percepisce innanzitutto come un ammasso di problemi?

2. A fronte di una concezione di questo tipo, di stampo positivista, noi ne sosteniamo un’altra – antipositivista? _ secondo la quale il tutto -la persona o la famiglia – è molto più della somma delle parti. Cerchiamo di spiegarci meglio: un bambino può dormire male, non mangiare, essere molto distratto, avere crisi violente … Diciamo che può presentare una serie di sintomi che nessuno di noi evidentemente ignora. Ma il tutto, questo tutto della persona multidimensionale, che è ben di più di un mero assemblaggio dei suoi sintomi, non può emergere che in uno spazio di non-sapere e quindi di scoperta condivisa. La clinica dell’accompagnamento consente proprio questo.

Dobbiamo precisare questa idea di direzione di cura. Il termine “direzione” non va inteso qui inteso nel senso posizione gerarchica, di potere su un altro o su degli altri, ma nel suo significato originario di orientamento, di movimento verso… Si tratta di un accompagnamento nel corso del quale il clinico deve assumersi la responsabilità, nei confronti della famiglia e della persona-paziente, di cercare insieme una direzione capace di modificare la situazione presente. Non è quindi tanto l’aspetto tecnico di indicazione in senso medico che entra in gioco in questo contesto. La preoccupazione è piuttosto quella di costruire con la famiglia uno spazio simbolico che eviti di ridurre l’individuo alla visione unidimensionale del suo problema. Mediante questo approccio cerchiamo di elaborare una pratica clinica adeguata alla crisi. La direzione è quella che dobbiamo foggiare insieme, con tutti i soggetti coinvolti, il paziente, la famiglia. È la base a partire dalla quale deve emergere il senso del lavoro comune e dei progetti da mettere in opera. Per questo possiamo affermare che il senso della cura, il perché di questo lavoro, non preesistono alla psicoterapia: la persona non giunge da noi perché le “iniettiamo” una direzione, un senso. Il senso è ciò che potrà essere costruito con l’accompagnamento del clinico, e che costituirà il perno del lavoro.

L’atteggiamento utilitaristico che tende a imporsi nelle nostre strutture sociali e in ciascuno di noi pretende di sapere tutto e subito dei bisogni e del benessere del bambino. Il nostro intervento mette in discussione questo punto di vista. Noi pensiamo che questo sapere non esista apriori, ma che emergerà in un modo o nell’altro nel corso della ricerca comune di una direzione da seguire. Così, quella che è nata come semplice risposta alla dispersione della presa in carico è diventata, per forza di cose, una critica della visione utilitaristica della clinica: la direzione della cura è un’ipotesi teorica e pratica che consente di passare da una medicina della classificazione a una clinica dell’accompagnamento e dell’impegno da parte del terapeuta.

Miguel Benasayag, Gérard Schmit – L’epoca delle passioni tristi Feltrinelli

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Commenti

Giuseppe Basile Confrontarmi con questa pagina come psicoterapeuta e come clinico è stato per me un riconoscimento del mio modo di operare, un rispecchiamento di quanto faccio da molti anni. A questo punto non so se definirmi un esploratore o un battitore libero, interessato a fare il meglio possibile per le poche persone in difficoltà che si sono imbattute sulla mia strada. Mi vedo in questa pagina e mi sento rafforzato nella mia filosofia terapeutica: l’altro non è solo sintomo, è una molteplicità dimensionale di risorse e capacità, con cui mi metto fianco a fianco in un cammino verso una “direzione” che costruiamo assieme, che non è data a priori, che non scaturisce da un sapere dogmatico e precostituito, ma da un “non sapere” che mi permette di essere libero nel “navigare a vista” con la persona che si affida fiduciosa a me. E navigare a vista implica di essere almeno in due, il timoniere a poppa e uno a prora che vede il fondo del mare e che gli manda segnali sulla direzione da prendere. Se nel timoniere possiamo riconoscere il terapeuta, chi scruta, osserva e invia segnali è la persona in terapia. Se poi si è in più, meglio ancora, aiutano a capire e vedere meglio.

Mario Caproni da assistente sociale mi ritrovo molto in questa impostazione umanistica del lavoro di aiuto ‘terapeutico’. Lavoro quasi ogni giorno a contatto con medici psichiatri, e, negli incontri congiunti con i pazienti, prevale spesso la direttività, il sapere già cosa è bene per il paziente, la classificazione, la ‘gestione’ del paziente. Mi rendo conto che il lavorare con persone con gravi disturbi psichici è cosa complessa e difficile, ma avverto, almeno in alcune situazioni, che vi è solo una parvenza di ascolto, mentre i giochi sono già decisi da chi ha in mano il potere tecnico-scientifico. Caro Giuseppe, prosegui pure con la tua ‘bottega’ da bravo e modesto artigiano.

Giuseppe Basile Mario Caproni, come ben sai, la relazione di aiuto terapeutica mal si addice ai tempi contingentati, alla fretta dell’ascolto, ai bilanci economici e al guadagno professionale, nè tanto meno alle scorciatoie farmacologiche, di cui vedo a posteriori i disastri: il graduale annullamento della persona. Ed è cosa ancor più dura poi porre rimedio a questi disastri. L’autentica relazione di aiuto non ha prezzo proporzionale all’impegno richiesto, ma richiede un grande valore etico verso la persona che soffre, ed essere capaci di “soffrire con chi soffre e gioire con chi gioisce”


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Mario Caproni
Giuseppe Basile

Mi piace · Rispondi · 14 luglio alle ore 16:14

Giuseppe Basile