Il tradimento dello psicoterapeuta alla scuola di appartenenza – Giuseppe Basile

Il tradimento dello psicoterapeuta alla scuola di appartenenza

Aldo Carotenuto

 “Quella dell’individuazione è pertanto una strada difficile e dolorosa, una strada attraverso la quale il crescere non procede in virtù di acquisizioni intellettuali. L’illusione che la “maturità psicologica” si acquisisca tramite un accumulo di conoscenze teoriche, o attraverso qualche speciale training alla moda, fa milioni di vittime. Il risultato di queste indigestioni di discorsi psicoanalitici è in genere che la persona non è cambiata affatto, solo è diventata molto più saccente e presuntuosa. Le razionalizzazioni ingegnose sono anch’esse “tradimenti” che la mente commette ai danni del cuore: ci si sente illuminati, ci sembra di avere capito tutto e si va in giro con aria da profeti. In genere ci pensa la vita a sgonfiare questi palloni, ed essa è certamente più ingegnosa di loro nel disincantarli. Anche all’origine della presunzione c’è un tradimento. Se si fosse più coscienti della propria emotività, si avrebbe meno bisogno di trincerarsi dietro certezze razionali.

Persino gli psicoanalisti, in modo assai più sostanziale di quanto non si creda, possono nascondersi dietro la loro Persona di terapeuta, identificarsi nella scuola di appartenenza e non essere capaci di tollerare il nuovo, né in se stessi né nei loro pazienti.

La socratica saggezza del dubbio non benedice questi individui il cui più triste malanno è la presunzione intellettuale e l’incoscienza del livello emotivo della loro vita. […] L’atteggiamento di uno psicoanalista verso la sua scuola di formazione, infatti, può essere molto simile a quello del bambino nei confronti della sua famiglia. La comodità di delegare tutta la responsabilità alla “scuola” e alle teorie dei padri fondatori rende molto sterile la pratica professionale e inadeguata a fronteggiare le situazioni diversissime che il rapporto analitico suscita anche nel terapeuta.

Una spiegazione di questo fenomeno è da ascriversi anche alla comune tendenza, ripetiamo, infantile, di salvare sempre l’immagine dei genitori, cioè nel caso della famiglia psicoanalitica dei padri fondatori. Come si vede è necessario un tradimento anche e soprattutto da parte dei figli, un tradimento di quelle istanze che non sentiamo più corrisponderci e che ostacolerebbero lo sviluppo del nostro “stile” personale.Resta importante e degno in sé il fatto che ciascuno cerchi ispirazione in modelli che ritiene positivi e affini alle sue inclinazioni, anche Napoleone leggeva le vite degli uomini illustri! Così uno psicoanalista si può ispirare in particolar modo a Rogers o a Jung o a Freud, ma poi diventa necessario assumere la propria modalità di lavorare, il proprio stile unico e irripetibile”.

Aldo Carotenuto, Amare Tradire – pagg. 52- 53

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Commento

Trovo per me consolante, questa pagina di Aldo Carotenuto, perché tante volte, fra me e me, mi sono chiesto se il mio modo di fare psicoterapia, guardando cioè prima di tutto l’individuo e la sua storia relazionale, fosse un modo eretico, non ortodosso, rispetto all’insegnamento ricevuto circa quarant’anni fa. Allora le scuole di psicoterapia erano poche, quelle classiche, identificate da specifici e consolidati orientamenti teorici e metodologici. Non c’era la proliferazione di scuole come è successo con l’introduzione della legge nazionale dell’Ordine degli Psicologi e degli Psicoterapeuti. Allora è scoppiato il boom delle scuole che hanno cominciato a pullulare come margherite a primavera e la moltitudine di professionisti psicologi che riempiono pagine di pubblicità del loro saper fare di tutto e insegnar tutto, vendendo “l’illusione che la “maturità psicologica” si acquisisca tramite un accumulo di conoscenze teoriche”.

“In genere ci pensa la vita a sgonfiare questi palloni, ed essa è certamente più ingegnosa di loro nel disincantarli”.

Io di prassi al primo colloquio conoscitivo con un paziente, dopo aver ascoltato il suo problema e la sua sofferenza, dichiaro apertamente e umilmente che non so se sono in grado di aiutarlo, ma specifico il mio modo personale di lavorare, un lavorare in relazione con il paziente su un terreno sconosciuto a lui e a me, e che, una volta assunto l’incarico, non abbandono il compagno di viaggio, per quanto difficile e sconosciuto possa essere il viaggio.

Anni fa ho avuto un paziente che si rivolge a me per una psicoterapia, rivelandomi preliminarmente che fino ad allora era stato seguito da una psicoterapeuta. Dopo quasi un anno di terapia inconcludente, questa gli confessa che si era sbagliata nell’inquadrarlo in una categoria psicodiagnostica e che quindi secondo lei bisognava ricominciare tutto daccapo alla luce della nuova diagnosi. Il paziente era secondo lei un “caso” da classificare e inquadrare in un manuale psicodiagnostico, classificato ovviamente secondo un sintomo. Le sfugge e non considera che un paziente è prima di tutto un individuo con una sua storia personale e familiare e non assimilabile a quella di nessun altro. E questo fa la differenza rispetto a tutti gli altri casi apparentemente analoghi, ma invece sempre unici e specifici, perché ognuno di noi è unico.

Io con il tempo sono arrivato, solitario, alla conclusione che ogni paziente è sempre una persona unica e che, come tale, bisogna prima capirlo e poi mettersi alla ricerca della storia del suo sintomo, che non è mai solo e solamente un disturbo, un malessere, una patologia da estirpare, ma è soprattutto una comunicazione camuffata in mille modi e con linguaggi diversi.

E in questo lavoro di ricerca personale fatto con passione ci si può imbattere in una verità teorica e pratica che non appartiene alla scuola di appartenenza, che permette però di comprendere e aiutare meglio il paziente. Sono arrivato ora, ormai quasi alla fine della mia attività di psicoterapeuta, a capire che la psicoterapia è fondamentalmente una ricerca continua senza sentirsi traditori, se si prendono deviazioni e sentieri diversi pur di aiutare il paziente, assumendo “la propria modalità di lavorare, il proprio stile unico e irripetibile”.

Ma soprattutto ho capito che se si vuole veramente aiutare l’altro che si affida a te non bisogna dimenticare che l’altro è un individuo, unico, che per poterlo capire e aiutare, bisogna prima:

 

“mettersi le sue scarpe,

percorrere il suo cammino,

vivere i suoi dolori, i suoi dubbi, le sue risate,

vivere gli anni che ha vissuto lui

e cadere dove è caduto lui

e rialzarsi come ha fatto lui.

Ognuno ha la propria storia.

E solo allora si potrebbe giudicare”.