«Ama il prossimo tuo come te stesso.» – – Michela Marzano

“Ama il prossimo tuo come te stesso”

Michela Marzano

«Ama il prossimo tuo come te stesso.» È una frase che tutti conoscono. Eppure nessuno, o quasi, insiste sufficientemente sulla seconda parte. Come te stesso. Bisognerebbe scriverla alla lavagna. In maiuscolo. E soffermarsi su ogni termine.

E allora decido di farlo con i miei studenti, anche solo per vedere cosa succede.

«Qual è la parola chiave secondo voi?»

«Ama.»

«Siete proprio sicuri?»

«Prossimo.»

«Guardate che non è un gioco. Riflettete un attimo prima di rispondere!»

Ma è troppo difficile riflettere quando per anni la si è sentita ripetere a pappagallo, sempre con quest’idea insopportabile che bisogna smetterla di essere egoisti per amare anche il prossimo.

È troppo difficile quando per capire quello che vuol dire una frase si deve cominciare dal «come», una parola apparentemente tanto banale. Eppure è sempre lì che nasce la relazione.

«Perché non si tratta tanto di amare il prossimo, ma di amarlo come se stessi. Ecco il vero problema! Perché la cosa più difficile è amare se stessi. Non è proprio perché non ci si ama, che si spera di incontrare un giorno colui o colei che ci amerà veramente?»

Amare per non dover più sopportare il peso dell’assenza. Amare per sentirsi vivere. Amare per riempirsi dell’altro …

È la trappola in cui cadiamo un po’ tutti. A parte forse coloro che si credono superiori e indipendenti e che, però, hanno comunque dei bei problemi.

«Ti amo. È possibile che tu non te ne renda conto?»

Non so nemmeno più quante volte l’ho detto. Ma chi amo veramente. Lui? Quest’uomo che è altro rispetto a me, oppure la rappresentazione di colui che deve poter colmare il mio vuoto e calmare questo senso di smarrimento che mi opprime?

Per poterlo amare, dovrei essere capace di amarmi. Sentirmi «piena» ancora prima di incontrarlo. Pronta a dare, ancor prima di voler ricevere.

Che fare allora di tutte queste parole in disordine … norme, maledizioni, promesse, divieti … che si sono depositate in me, pian piano? Come fare per assumersi il rischio di amare di nuovo e abbandonare la paura di non farcela?

In fondo, si vive sempre e solo quello che si vuole vivere. È da lì che si deve ripartire. Per desiderare quello che si ha già. Senza passare il tempo a sperare che forse un giorno tutto sarà diverso. Perché tutto è già diverso, non appena si fa la pace con i propri ricordi. Quelli che smetteranno di accompagnarci solo quando avremo ritrovato quei profumi e quei rumori, la fine della fatica, l’inizio della gioia.

Solo quando avremo la forza di tradire quello che non ci è stato trasmesso con amore, ma ordinato, con la minaccia implicita di essere un giorno diseredati.

L’ho capito pian piano. Anzi. Forse dovrei dire che, pian piano, l’ho percepito. Proprio mentre scoprivo che ero capace di ascoltare il «se lo fai, sbagli» di mio padre senza scompormi. Proprio mentre cominciavo lentamente a farlo. Nonostante tutto.

Michela Marzano, Volevo essere una farfalla pagg. 173 – 174

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Commento

Vero che conosciamo e abbiamo imparato questo comandamento da almeno duemila anni “a pappagallo”, ripetendo una formula vuota. L’abbiamo inteso come un dover uscire da se stessi per amare l’altro, il diverso, il bisognoso. A non essere egoisti. A non pensare solo a se stessi.

Vero invece che la differenza è in quel come, che non significa prima, prima veniamo noi poi gli altri. Come viene predicato oggi da nuovi e improvvisati politici e falsi predicatori stravolgendo il significato rivoluzionario del comandamento.

E non significa neanche che bisogna amare moralisticamente prima di tutto il prossimo, trascurando se stessi per meritare un qualche premio futuro o un qualche riconoscimento.

Vero che la chiave di lettura è in quell’amare come se stesso. Ma che significa amare se stesso? Abbiamo sempre inteso che amare significa soprattutto amare l’altro con cui si costruisce una relazione, un attaccamento.

“Ma chi amo veramente. Lui? Quest’uomo che è altro rispetto a me, oppure la rappresentazione di colui che deve poter colmare il mio vuoto e calmare questo senso di smarrimento che mi opprime?

 

Lo sappiamo ormai che in una relazione d’amore inizialmente ed istintivamente ci innamoriamo di un’immagine dell’altro che ci costruiamo proiettando su di lui nostri bisogni insoddisfatti, i vuoti che aspettano di essere colmati. Tante volte, quando chiedo in terapia ad uno perché si è innamorato dell’altro, mi sento dire: l’aspetto fisico, le sue capacità fisiche ed affettive, le qualità morali, il fascino. Ma a nessuno viene in mente di dire: mi sono innamorato dell’immagine che io mi son fatto di lui, immagine che prima o poi apparirà illusoria. Ed è questo il primo momento positivo della crisi di coppia che si potrà capire e superare se i due si fanno reciprocamente i conti con tutto ciò che non è stato detto o saputo a suo tempo. Che cioè l’altro è sempre diverso da me, che l’amore non è mai unilaterale, che è un reciproco scambio di dare e avere.

Insisto, ma che significa amare se stessi? Essere un nuovo Narciso destinato ad amare solo se stesso fino alla morte? Quale può essere il metro di misura dell’amare se stessi? Forse la risposta non è unica e ognuno ha la sua.

A me piace pensare che amarsi è un volersi bene, cioè raggiungere un ben-essere, un aver cura di sé prima di tutto, un accettarsi senza aspettare che siano gli altri a darti il benessere e a prendersi cura di te. Non si può essere mendicanti di amore, sempre alla ricerca di un immaginario altro che riempia le nostre mancanze, i nostri vuoti, che supplisca i nostri limiti e le nostre carenze.

Partiamo dal riconoscere il positivo che ci appartiene o per eredità o per storia, coscienti anche dei nostri limiti, e per questo di non essere autosufficienti, che abbiamo bisogno di appoggiarci a qualcuno. Nasciamo già con il bisogno di sentirci amati, bisogno innato di attaccamento a qualcuno da cui ci sentiamo amati.  In questo restiamo sempre i bambini che siamo stati.

Allora scopriamo che l’amore è reciprocità del dare e del ricevere di due compagni di viaggio, capaci di essere complementari, che si danno la mano camminando fiduciosi lungo il percorso che la sorte ci assegna.