Niente è vecchio come le certezze
Michele Serra
In contesti diversi persone molto diverse hanno tessuto, recentemente, una specie di elogio delle sfumature, che è anche un elogio della complessità, nonché una implicita condanna delle analisi becere e delle opinioni strillate. Si tratta di Mario Calabresi (benvenuto!) ieri nel suo primo editoriale; Giuliano Ferrara pochi giorni fa sul “Foglio”; Luca Sofri riprendendo e commentando Ferrara; e il sottoscritto, più di una volta, in questo stesso riquadro.
Se avessi vent’anni, diffiderei di tutti e quattro. Al rispetto della complessità (che è anche rispetto del limite, e forse accettazione dell’ignoto) si arriva solo con gli anni, e niente è più naturale dell’animoso rifiuto che il giovane oppone ai dubbi dell’adulto: li traduce in pavidità, stanchezza, opportunismo.
Ma non ho vent’anni. La coscienza della mia ignoranza, lontano dal deprimermi, mi sembra una magnifica conquista. Da lì deriva l’inattesa libertà di riconoscermi spesso al di sotto della comprensione delle cose: condizione che, piuttosto che deprimermi, mi regala una straordinaria voglia (giovanile!) di capire il mondo e le persone, o almeno di provare a farlo.
Niente è noioso come le certezze. Niente è vecchio come le certezze.
Repubblica domenica 17 gennaio 2016
Commento
Il pregio dell’anziano è la percezione del limite acquisita con il passar del tempo e nello stesso tempo la percezione della complessità. Quello che prima sembrava certezza, sicurezza, ovvio, visto con altri occhi, quelli del dubbio critico, quelli dell’esperienza accumulata, non è più tale. Prima di tutto la certezza della vita, la certezza del sapere, la certezza dell’essere. A volte le certezze si rivelano una riduzione della complessità, specialmente se si tratta della complessità dell’animo umano. E non perché siano false, ma perché sono riduttive della rappresentazione della vita umana. L’anziano che ha ancora desiderio di conoscere sente di trovarsi ad un bivio e sa di non sapere, e che bisogna battere altre strade, fare i conti con l’ignoto. Sa che non siamo padroni della verità, che va invece cercata nelle sue tante e sfuggenti sfaccettature.
Nell’arte della psicoterapia spesso dover ammettere di non sapere è un vantaggio che evita di ingabbiare l’animo del paziente e spinge invece a riconoscere la complessità sconosciuta con cui ognuno di noi è impastato. È un sapere nuovo, un sapere di un dover tornare indietro per cogliere sfumature non viste prima, sfuggite ad una lettura attenta, per andare avanti e capire che l’altro non è solo un oggetto di studio, ma soprattutto una persona complessa, non facilmente decifrabile. Che spinge e impegna la curiosità di conoscere e la capacità di aiutare. Ma soprattutto che il proprio punto di vista terapeutico spesso è acritico, che poggia invece su credenze acquisite nel tempo che possono portare fuori strada non riconoscendo la verità del paziente. Bisogna essere vecchi e saggi per ammettere i propri limiti, di non essere onnipotenti e di imparare dai fallimenti.