Parlare con i morti Stefania Leone

Parlare con i morti[1]

Stefania Leone

Il mistero della vita per noi, esseri parlanti, è accompagnato, sin dalla nascita, dal mistero della morte: alla radice della vita c’è la morte. Quando veniamo al mondo, iniziamo anche a morire. La morte non rende eterni. La morte sfugge ad ogni rappresentazione simbolica. Non ci sono fughe, scorciatoie, angoli in cui rifugiarsi. Siamo totalmente esposti, inermi, indifesi. Siamo soli e senza scuse – direbbe Sartre.

… […] Chi elabora un lutto, si trova, nell’affannosa ricerca della persona scomparsa. La domanda rivolta all’assente sempre presente, è sempre, un vano tentativo di sapere, “dove” e in che forma, possiamo riconoscere la presenza che è diventata assenza.

“Dove? In quale mondo va chi se ne va? Da una parte abbiamo dunque il mistero della morte. Ma indubbiamente, per chi resta, il fatto che l’altro entri nel regno dei morti lo costringe a rapportarsi non più con la sua presenza ma con la sua assenza. Ma come si può essere in rapporto con l’assenza? [2]

La reazione affettiva alla scomparsa è una presenza insopportabile, un passaggio strozzato, necessario, attraverso il quale, avanza un pasticcio di ricordi incoerenti e confusi, di ritrovamenti vaghi e inafferrabili, di momenti di gioia e di dolore.

[…]

Una vera altalena in cui l’assenza e la presenza si manifestano. Riabitare i luoghi, quei luoghi, in cui l’assenza è assordante, diventa un’esperienza fondamentale per elaborare la perdita senza evitarla. È importante rivisitare le “cose” che hanno la sacralità di una icona. Si tratta di incontrare ogni volta il nero della notte, l’angolo buio della stanza, la polvere “viva”, la traccia informe di una sagoma inesistente ma ancora insistente. Il rischio che si corre, è quello di iper-idealizzare l’oggetto perduto, di non saperlo “vedere” mortale. […].

La possibilità di elaborare la perdita, è legata inevitabilmente, al tipo di rapporto tenuto con la persona scomparsa.

[…].

Ma la preghiera, che esige l’esistenza di un Mondo eterno, non intaccato dalla miseria, non nasce forse come esito di un lutto melanconico, che non si elabora mai, ma al contrario, si cronicizza? Non è questa forma melanconica della preghiera, che rischia di non portare mai a termine il lutto? Ma di elaborare un finto lutto? Non è preferibile frequentare la ferita del lutto attraverso la memoria, la convivenza con gli oggetti che ci “parlano”, ascoltare i racconti delle persone che condividono il dolore della scomparsa? Non è questo il compito etico, sacro, che si affida alle Cose del mondo? Grazie alla trascendenza delle Cose, possiamo parlare e camminare con i nostri morti. […] Parlare con il morto è un modo per pregare. L’unica “preghiera” è parlare con i nostri morti. La preghiera che consente di incorporare il morto.

Ma allora è questo l’esito del lutto? Incorporare il morto attraverso la “preghiera”? Pregare è parlare con i nostri morti? Parlare con loro è il modo di incorporarli?:

possiamo dimenticare perché abbiamo incorporato il morto, perché lo abbiamo ricordato, lo portiamo con noi, fa parte di noi. Ed è solo nella misura in cui fa parte di noi che lo possiamo dimenticare.[3]

[1] Stefania Leone, L’ora blù

[2] Massimo Recalcati, Incontrare l’assenza. pag 13.

[3] Recalcati, Incontrare l’assenza