Avere un figlio con handicap . Giulia De Marco*

Michela Capone è un giovane magistrato, felicemente sposata, madre di due bambine belle, sane, intelligenti, quando nasce Marco, il terzo figlio pervicacemente voluto, che cambierà la sua vita.

Perché Marco è un bambino handicappato.

Il suo libro Quando impari a allacciarti le scarpe (Carlo Delfino Editore, Sassari 2010, pp. 184 euro 20) è un quasi diario dei primi dodici anni di vita di Marco, ma è soprattutto la storia di un percorso verso una maternità pura, assoluta, senza corrispettivi. È la storia di una madre che, all’inizio, rifiuta l’idea di aver messo al mondo un figlio handicappato, che quando è costretta a prenderne coscienza viene sopraffatta dai limiti soggettivi ed oggettivi che la malattia di Marco comporta per lui e per la sua famiglia, che infine impara ad accettarli e si pacifica con se stessa e con la vita, “ora vedo ciò che Marco è e riesco a dimenticare ciò che non è”.

E’ una storia di umiliazioni subite da parte di medici senza anima, presuntuosi, avidi; da parte di insegnanti falsi sostenitori dell’integrazione che vanno predicando nei convegni e sui media, ma che non praticano nella loro scuola; da parte di burocrati ottusi e malpensanti; da parte di religiosi, ipocriti interpreti del verbo di Cristo che rifiutano i sacramenti ai Bambini “non perfetti” e che arrivano persino a escludere Marco dalla recita natalizia, ritenendolo indegno di partecipare a una rappresentazione sulla nascita di Gesù perché “non è composto e sano”. È una storia di lotte per l’affermazione dei diritti del figlio, come persona e come disabile, portata avanti con gli strumenti che le sono più congeniali: le leggi, la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, i regolamenti, le delibere, regionali.

È una storia di solitudine. Una solitudine fatta di non detti, di sguardi sfuggenti, di silenzi assordanti, ma anche di sguardi curiosi, di parole inutili, di incomprensioni, di risentimenti. Michela analizza con lucidità il senso di solitudine che la opprime e scrive: “Non mi piace essere soccombente, piangermi addosso e rischiare di perdere la dignità. Così travesto il mio dolore, confidando nell’intelligenza altrui”.

Gli amici avrebbero dovuto capire quale bisogno di urlare la propria sofferenza aveva invece Michela, ma molti di loro non hanno saputo andare oltre il suo travestimento. Fu rispetto della riservatezza o volontà di non lasciarsi coinvolgere in un dolore che fortunatamente aveva colpito altri? Michela è lapidaria: la vera amicizia non attende inviti per soccorrere. Gli amici avrebbero dovuto comprendere e dare sostegno con generosità, senza attendere che venisse loro richiesto e senza attendersi ricompense. Pochi lo hanno fatto.

L’autrice che, nella vita quotidiana, porta la sua maschera, quando scrive se ne libera e si mette a nudo manifestando apertamente i suoi sentimenti. Rivela la sua rabbia contro Dio: “lo non ho fede, non so pregare, non voglio pregare, pago ogni giorno un debito inesauribile con la vita”. Prova invidia nei confronti delle sue amiche che hanno figli sani e che non debbono ogni giorno confrontarsi con un figlio che ti succhia la vita; prova rancore nei confronti di coloro, parenti e amici, che li hanno abbandonati o che si sono fatti abbandonare; prova rimpianto per quella che era la sua vita prima di Marco quando, come donna e come madre, si sentiva perfetta.

Confessa i sentimenti contraddittori che agitano il suo animo: sensi di colpa verso Marco per averlo generato malato, amore smisurato nei suoi confronti perché è il figlio più debole, ma anche, in alcuni momenti, odio perché Marco esige un’attenzione continua, perché la stronca fisicamente e mentalmente, perché il pensiero di lui non lascia spazio ad altri pensieri; amore smisurato verso le figlie, sensi di colpa verso di loro perché sa di occuparsene troppo poco, ma anche un sottile rancore perché loro sono perfette mentre Marco è come un giocattolo rotto.

Il dolore permea tutti giorni della sua vita ed è talmente insopportabile che Michela arriva a desiderare la morte per sé e per Marco. Ma un giorno, forse perché la morte le è stata molto vicina, Michela comprende che “il dolore bisogna viverlo senza dargli troppa soddisfazione”. Senza crogiolarvisi. E la sua vita, lentamente, cambia. Come tutte le donne, per prima cosa va dal parrucchiere, si riappropria della sua femminilità, riscopre la bellezza dell’essere amata da suo marito, riprende a condividere la vita delle figlie, gioisce per i loro successi scolastici e sportivi, ritrova il senso di essere famiglia.

E un giorno, infine, scopre di avercela fatta, di amare Marco di un amore puro, assoluto, di amarlo “per quello che è e per quello che non è e non diventerà” e di godere dei suoi piccoli ma importanti progressi, di gioirne con lui e per lui. Non più confronti, non più invidie, non più rancori ma solo amore. “lo campione, io vincitore”, esclama Marco il giorno in cui riesce a vestirsi tutto da solo, mentre la madre lo spia, piena di speranza, dietro la porta. Splendido campione Marco. Ma splendido campione anche la sua mamma, capace di porre fine al suo calvario e di dire “Voglio essere una madre felice di vivere”.

Il libro è un saggio sulla genitorialità perché l’autrice è riuscita a coglierne l’essenza e a esporla col suo linguaggio efficace e diretto. “Essere genitori di bambini normali significa crescerli in perenne lotta con chi attenta alla loro perfezione. Rinneghiamo i loro errori, i loro fallimenti perché non ci piacciono i nostri limiti che loro hanno il dovere di superare. Ogni loro successo è il nostro successo. Godiamo della loro felicità perché tramite loro vogliamo vivere di gioia. I figli normali per l’amore per noi stessi, per soddisfare un sotterraneo desiderio narcisistico. L’amore per un figlio handicappato è un amore puro senza corrispettivo”.

Scritto con un linguaggio spontaneo, a tratti impetuoso e a tratti così gelido da farti respirare la disperazione dell’autrice, questo libro non ti consente di essere un semplice lettore. L’autrice ti fa entrare nella sua vita, ti mette a parte dei suoi pensieri più intimi, ti stimola pensieri profondi per cui difficilmente chi lo legge potrà dimenticare Michela e Marco; ma anche il marito, le figlie, la sorella, alcuni amici cari che ruotano attorno a lei e a cui lei dedica pagine bellissime.

* Già Presidente del Tribunale per i minorenni di Torino

***   ***   ***

Il miglior commento è il silenzio!

3 Risposte a “Avere un figlio con handicap . Giulia De Marco*”

  1. Stefania Leone
    Buongiorno. Si Giuseppe, questa madre ha vissuto senza dubbi, come hai scritto tu, “un groviglio di sentimenti: invidia, rancore, rimpianto, amore, odio, senso di colpa, accettazione”. Dalla recensione ho compreso che si tratta di “un quasi diario dei primi dodici anni di vita di Marco, ma è soprattutto la storia di un percorso verso una maternità pura, assoluta, senza corrispettivi. È la storia di una madre che, all’inizio, rifiuta l’idea di aver messo al mondo un figlio handicappato, che quando è costretta a prenderne coscienza viene sopraffatta dai limiti soggettivi ed oggettivi che la malattia di Marco comporta per lui e per la sua famiglia” ma che “infine impara ad accettarli e si pacifica con se stessa e con la vita. Questa è la lezione fondamentale che a mio avviso traggo dalla storia di una madre non perfetta (come noi tutti) che conosce il coraggio attraverso le proprie debolezze ma non si arrende. Nella storia io rintraccio l’ostinazione tipica di una madre. Ma a questa ostinazione a rendere possibile “il miracolo” d una pacificazione. Mi ha colpito in particolare una frase molto indicativa: “ora vedo ciò che Marco è e riesco a dimenticare ciò che non è”. Questo è il passaggio che trasforma un triste groviglio in uno slancio vitale.
    In questa madre vedo l’imperfezione di noi esseri umani, l’incapacità, semmai iniziale, di accettare tutte le conseguenze di una condizione non cercata ossia una patologia invalidante che ha il volto dell’ingovernabile, del “non scelto” (lei ha scelto di diventare madre, non ha scelto l’handicap del figlio). Di fronte ad una malattia siamo impreparati. Per una madre è un duro colpo. Ed è facile credere che si sia trattato di “una storia di umiliazioni subite da parte di medici senza anima, presuntuosi, avidi; da parte di insegnanti falsi sostenitori dell’integrazione che vanno predicando nei convegni e sui media, ma che non praticano nella loro scuola; da parte di burocrati ottusi e malpensanti; da parte di religiosi, ipocriti interpreti del verbo di Cristo che rifiutano i sacramenti ai Bambini “non perfetti” e che arrivano persino a escludere Marco dalla recita natalizia, ritenendolo indegno di partecipare a una rappresentazione sulla nascita di Gesù perché “non è composto e sano”. Le istituzioni sono assenti. E chi ha un problema si sente abbandonato da chi dovrebbe aiutare.
    Ma in tutto il coacervo di umiliazioni, di solitudini, di risentimenti, di incomprensioni, si rintraccia sempre sul fondo, la determinazione di una madre che non può e non vuole arrendersi alla morte, alla malattia e all’isolamento. Solo dopo questa fase, necessaria e inevitabile, una madre avanza senza paura. L’autrice infatti scrive: “Non mi piace essere soccombente, piangermi addosso e rischiare di perdere la dignità. Così travesto il mio dolore, confidando nell’intelligenza altrui”. Il rapporto tra la madre ed il figlio, è calato in una dimensione di solitudine che interessa tutta la famiglia.
    Lo strumento che le è più congeniale è il desiderio di non farsi da parte, di avanzare. Gli strumenti legislativi sono utili nel momento in cui, chi li promuove, agita il percorso, lo smuove dalla immobilità di chi vuole darla vinta alla malattia e al fantasma idiota di chi è così cieco da non vedere oltre.
    Io trovo personalmente che la scrittura abbia aiutato questa madre a liberarsi, manifestando apertamente i suoi sentimenti. L’autrice ammette di provare invidia per le amiche che hanno figli sani, una invidia che credo si possa anche comprendere e non giudicare. Aggiungo che è anche “umano” invidiare forse chi, per sorte e non per merito, è stato più “fortunato”, perché la sofferenza di accudire un figlio malato, toglie la libertà, e vedere la libertà degli altri è doloroso per chi fisicamente e psicologicamente è stanco e non trova conforto. Ma non è una invidia perenne se la si affronta e si è capaci di darle un nome. Se si elabora “il lutto”. È il dolore intenso, forte, accecante che anima l’invidia ma è una invidia più che comprensibile. Quando in una famiglia entra di prepotenza una malattia (senza avviso e senza garbo) si è divisi in mille contraddizioni, sentimenti. Ma questa fase è solo “iniziale”, è una prima reazione di difesa, di rabbia.
    Ma, come descrive l’autrice della recensione, “un giorno, forse perché la morte le è stata molto vicina, Michela comprende che “il dolore bisogna viverlo senza dargli troppa soddisfazione”. Senza crogiolarvisi. E la sua vita, lentamente, cambia.[…] E un giorno, infine, scopre di avercela fatta, di amare Marco di un amore puro, assoluto, di amarlo “per quello che è e per quello che non è e non diventerà” e di godere dei suoi piccoli ma importanti progressi, di gioirne con lui e per lui”.
    Solo dopo aver provato il rancore, il dispiacere, la solitudine, si può accettare con rassegnazione un destino non voluto. Il figlio più debole, insegna ad una madre, un amore per la sua imperfezione, la sua unicità. Una madre è sempre ostinata e coraggiosa, anche quando sembra arrendersi e lasciarsi sconfiggere dalle tempeste sociali che la circondano. L’amore per un figlio handicappato è davvero un amore puro senza corrispettivo. Malgrado l’egoismo degli altri, l’inerzia dei parenti e degli amici, malgrado i giudizi troppo superficiali di chi dovrebbe aiutare questa madre, Michela riesce a dare un nome al suo dolore e a trasformarlo in un moto generativo. Buona giornata. E ancora grazie per il confronto.

  2. Giuseppe Basile
    A dir la verità, Stefania Leone, a me pare che questa madre viva un groviglio di sentimenti: invidia, rancore, rimpianto, amore , odio, senso di colpa, accettazione. Il tutto all’interno di un sistema familiare che entra in una forte fase di squilibrio, tutti a combattere una battaglia insidiosa: marito, moglie, padre, madre, sorelle e fratello, alleati e nemici fra di loro.. Non ci sono ragioni che diano un senso a quello che capita improvvisamente e che mette a repentaglio l’esistenza di tutti. Una famiglia che non si ritrova più, ognuno per sè. E’ la storia di tante famiglie, e non tutte hanno la fortuna di veder spuntare una madre coraggio che riesce ad attivare un forte movimento di cambiamento per ritrovare un nuovo equlibrio funzionale e sistemico. Una madre che dopo tanto soffrire trova la sua capacità di resilienza di far fronte al dolore e superarlo. Ognuno fa la sua parte per il bene di tutti e tutti si riconoscono nell’esclamazione di Marco: “Io campione, io vincitore”.
    Grazie Stefania per lo spunto iniziale.!

  3. Stefania Leone
    Buonasera Giuseppe Basile. Ho letto la recensione e sono curiosa di leggere questo libro autobiografico in cui l’autrice racconta il proprio vissuto con una ” fede insistente”. Questo è lo strumento di una madre: l’ostinazione e la capacità di andare avanti nonostante l’opinione negativa degli altri. Una madre si arrende solo dinanzi al segreto singolare del proprio figlio e quindi si carica di pazienza, di accoglienza e di grazia. Una madre non arretra mai, ma avanza con sicurezza e determinazione per difendere e affermare l’identità ed i diritti del proprio figlio. Grazie.

I commenti sono chiusi.