Ereditare il trauma – Moreno Montanari

 

Ereditare il trauma 

Moreno Montanari

 

“Un mio analizzante mi riporta un dialogo con la madre durante il quale cerca di sapere di più del periodo in cui lei e suo padre si sono separati. Si tratta di una fase della sua vita che fatica a collocare con chiarezza nel tempo e della quale serba ricordi estremamente confusi. Un’immagine però gli si è incisa nella memoria: tra sua madre e suo padre volavano piatti. La madre, tuttavia, gli spiega che una cosa del genere non è mai avvenuta e che il problema, dal suo punto di vista, era che non litigavano mai davvero perché lei era incapace di farlo e che pertanto non solo non volarono mai piatti, ma nemmeno parole grosse, che si trattò di una sorta di resa sorda, caratterizzata da aggressività passiva e incomunicabilità sulle quali poi lei, in analisi, lavorerà a lungo.

Non c’è motivo di dubitare di questa versione, i due hanno un ottimo rapporto, specie per quella che potremmo definire “un’alleanza terapeutica”: il mio analizzante, ancora minorenne, chiese infatti alla madre di poter intraprendere un percorso di analisi dopo aver visto gli esiti positivi che questa aveva avuto su di lei, così la collega che la seguiva l’inviò da me.

Da allora, in piena autonomia, il figlio ha sempre potuto trovare piena collaborazione dalla madre nella ricostruzione di scenari biografici utili alla comprensione della sua vicenda personale e familiare. “Piuttosto”, prosegue la madre, “i piatti volavano tra tua nonna e tuo nonno, ma tu questo non l’hai mai saputo, tanto meno l’hai potuto vedere” (i suoi nonni vivono infatti al sud mentre lui è nato a Milano). Tuttavia, mi ribadisce il mio analizzante in seduta, questo ricordo è per lui nitido e emotivamente forte. Una fantasia? Forse.

[…]

La questione del trauma è davvero complessa e scivolosa perché è difficile inquadrare qualcosa che per definizione non si può ricordare: come mi spiegava una mia analista, dobbiamo comportarci con esso come farebbe un fisico con un buco nero che non è osservabile direttamente ma del quale possiamo inferire l’esistenza dal modo in cui si comporta lo spazio ad esso circostante. Si aggiunga a questo che l’evento traumatico dipende dalla suscettibilità del soggetto che lo subisce, dalle condizioni psicologiche in cui si trova quando lo sperimenta, come da quelle culturali e ambientali che possono impedire o inibire alcune reazioni che potrebbero risultare maggiormente adeguate rispetto a quelle che si sarà costretti ad agire ma che il contesto rende impraticabili, e così via.

Diversi studi evidenziano ormai da decenni come fenomeni quali l’abuso fisico, il suicidio, la morte per mano umana, se non opportunamente elaborati, gravino fino a tre generazioni, presentandosi nella psiche in maniera estremamente confusiva. “Le esperienze troppo dolorose per essere interamente comprese ed elaborate vengono trasmesse alla generazione successiva. Questi traumi indicibili e troppo dolorosi perché la mente possa digerirli, diventano la nostra eredità e influenzano i nostri figli e i loro figli, in modi che non riescono a comprendere o controllare. (p. 21). Un po’ alla volta “si creano miti familiari” carichi di sentimenti conflittuali e irrisolti di distruzione, rabbia, vergogna; sensi di colpa accompagnati da meccanismi difensivi come la proiezione psicologica, benevola o malevola, o il congelamento emotivo, specie nelle relazioni con le persone amate, in un quadro di costante senso di insicurezza, instabilità e minaccia, con difficoltà a sviluppare un equilibrato ideale dell’io e un adeguato senso di sé. Un fenomeno che la professoressa Yolanda Gampel, della Tel Aviv University, ha definito “radioattività del trauma”, una metafora presa in prestito dalla fisica nucleare per descrivere come la radiazione emotiva, al pari di quella fisica, “si diffonde nella vita delle generazioni successive, manifestandosi in forma di sintomi fisici ed emotivi, reminiscenze del trauma [non sperimentato personalmente] e in un diffuso attacco alla propria vita”.

[…] I fantasmi vagano senza sosta finché non trovano qualcuno disposto a riconoscerli e ad ascoltarne la storia; solo allora, finalmente, sono liberi di riposare (e di lasciarci) in pace”.

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Commento

Il malessere traumatico si trasmette nelle generazioni senza volerlo e senza saperlo. Viene introiettato in maniera subdola, con un dire e non dire non voluto, avvolto in un’area di nebulosità senza certezza. Ma non per questo innocuo, quasi un sentito dire ripetuto di qualcosa di grave, ma confuso. Il trauma ereditato ci confonde nel silenzio con la sua presenza, ci poniamo interrogativi destinati a restare muti o confusi, se non c’è una presenza che rassicura “che tra sua madre e suo padre non volavano piatti”.

In psicoterapia familiare sono frequenti queste situazioni in cui il sintomo è retaggio di comportamenti, di relazioni, di vissuti avvenuti nelle generazioni precedenti che in qualche modo esplodono nell’ultima, a volte senza una apparente continuità. Tanto che agli altri familiari appaiono incredibili per la loro violenza, specialmente se ripetuta, traumi da cui ci si è difesi inconsciamente con una fuga nell’amnesia dissociativa.

Quando riappare la memoria, anche dopo anni, riappare il trauma con la sua tragedia in un susseguirsi violento di accuse verso chi sapeva o si suppone che sapesse. E’ tutto il sistema familiare che va in crisi e ricucire le relazioni non è cosa facile. Questo è il tempo della terapia familiare, anche se non sempre è possibile. E’ il tempo di chiedere perdono e dare perdono, è il tempo della riconciliazione per quello che si è fatto e per quello che non si è fatto.

E’ il tempo della speranza di un tempo migliore.