“Diciamo che è ancora relativamente facile per il signor Perez liberarsi dell’etichetta cirrosi., far valere il suo diritto a essere e a esistere come molteplicità senza che si identifichi la cirrosi con la sua molteplicità. Ma è molto più difficile, se non impossibile, sottrarsi a questa etichetta per una persona diagnosticata come schizofrenica. o catalogata come disabile”. Al contrario, tutto ciò che riguarda la sua personalità, compreso ciò che non ha nulla a che vedere con la diagnosi o la classificazione, sarà arbitrariamente identificato come parte, sintomo e segno di tale classificazione. Si vedrà uno schizofrenico che dipinge e la sua pittura sarà quella di uno schizofrenico, si vedrà un disabile impegnarsi in politica, e sarà in primo luogo un disabile che fa politica”.
Innanzitutto sarà quindi l’etichetta a strutturare, nella percezione sociale, l’essere nel mondo delle persone etichettate.
L‘etichetta induce a credere che, in virtù della classificazione e della diagnosi, si sia reso visibile qualcosa che appartiene all’essenza di una persona e che si trasforma così in essenza visibile. Proprio per questo, nell’ambito psicosociale, le etichette pongono tanti problemi: ci fanno adottare uno sguardo normalizzatore.
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È il miracolo dell’etichetta: produce l’impressione che l‘essenza dell’altro sia visibile. A quel punto, l’altro non è più una molteplicità contraddittoria che esiste in un gioco di luci e di ombre, di velato e svelato, ma diventa immediatamente visibile e riconoscibile. Si è convinti, grazie all’etichetta, di sapere tutto sull’altro, chi è, cosa desidera e come è strutturata la sua vita, perché l’etichetta non si limita a classificare, ma stabilisce un senso, una sorta di ordine nella vita di chi la porta. Dobbiamo allora chiederci: cosa sappiamo realmente dell’altro quando conosciamo la sua etichetta? Il problema sta proprio nel fatto che il sapere si confonde con il ciò che è dato da vedere.
Ma questa dinamica è particolarmente complessa nelle nostre società, perché il diritto di guardare equivale in molti casi all’esercizio di un potere sull’altro. Per esempio, una famiglia che venga etichettata come famiglia con problemi. deve accettare di essere guardata: i professionisti (giudici, psicologi, educatori, assistenti sociali) hanno un diritto di sguardo sul suo spazio privato.
Nelle nostre società, chi si scosta dalla norma o la trasgredisce perde soprattutto i suoi diritti nell’ambito del privato e del segreto. In altre parole, il diritto a una certa non-visibilità, il diritto a un’opacità privata è associato a un privilegio, è un diritto che ci si deve meritare e che si può perdere nel momento in cui ci si discosta, in un modo o nell’altro, dalla norma sociale. In questo caso si deve affrontare lo sguardo dell’altro.
Ancora una volta il problema è che, vedendo un‘etichetta, crediamo, a torto, di sapere tutto di colui che la porta. Nella clinica della tristezza sociale, nella psicoterapia, il progetto di ascolto e di aiuto dell’altro deve quindi passare attraverso un lavoro preliminare su di sé, che porti a non vedere nella persona un’etichetta. Ma non basta, bisogna andare ancora oltre e aiutare l’altro, l’individuo o la famiglia, ad affrancarsi da quell’etichetta con la quale sovente si identifica, intendendola talvolta come un modo di essere al mondo.
Miguel Benasayag, Gérard Schmit L’epoca delle passioni tristi Feltrinelli
Commento
Sono di nuovo in vacanza a Pozzallo in Sicilia, colpito appena arrivato dal Covid. Costretto a stare in casa, ne approfitto a fare ordine nella mia libreria digitale. Mi imbatto in un testo per me molto significativo, letto anni fa, che con l’occasione ho ricominciato a rileggere pagine illuminanti sulla psicoterapia.
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Non so se sono stato fortunato nella mia prima attività lavorativa a lavorare nella scuola, nonostante le raccomandazioni dell’insegnante di matematica del liceo, fatte a noi alunni alla fine dell’anno scolastico, di fare di tutto fuorché l’insegnante. Allora conclusa la mia laurea in filosofia, ho iniziato a insegnare, più per necessità per rendermi autosufficiente dalla famiglia. Ma mi appassiono alla scuola, in pochi anni passo di ruolo, ma riprendo gli sudi di psicologia, non per necessità, ma per desiderio.
Di anno in anno mi appassiono a fare l’insegnante, il “maestro”, forte dell’insegnamento pedagogico del prof Aldo Agazzi e delle conoscenze psicologiche.
Una verità che ho scoperto allora è che ogni alunno è unico, è una persona con diverse sfaccettature, non è “l’alunno”, un numero statistico, una etichetta, ma che dietro la facciata convivono altri modi di essere che vengono bloccati. Chiudo con la scuola dopo trent’anni di insegnamento, quando avverto che la scuola si stava trasformando in una azienda.
Rispolvero la mia laurea in psicologia, faccio la mia scuola di psicoterapia, e in uno dei colloqui con un responsabile mi sento chiedere qual era l’onorario che io chiedevo per seduta e la durata della stessa, infuriato mi risponde che era troppo poco perchè così si squalificava la professione.
Da quel momento ho cominciato a prendere le distanze dalle prescrizioni dell’Ordine, dai manuali sacri, che fitti di etichette psicopatologiche, esploravano solo il sintomo in tutte le sue minuziose sfaccettature. Ricordo sempre quanto mi disse una paziente che si era rivolta a me dopo essere stata in terapia per due anni con una psicoterapeuta. Alla mia domanda perché il cambiamento, mi risponde che la terapeuta si era sbagliata a classificarla in base al manuale psicodiagnostico e che quindi bisognava cambiare pagina. Sono sincero, da allora non ho più aperto un manuale psicodiagnostico, convinto sempre più che la psicoterapia è un’arte, che richiede capacità di ascolto, che il sintomo fondamentalmente è un messaggio, una comunicazione camuffata, ma che contiene in sé una verità, che la persona non può essere incastrata nel sintomo etichetta