Dialogo tra terapeuta e paziente
Cosa c’è che la “disturba” nella storia della sua famiglia
Giuseppe Basile
Mi scrive un mio paziente
Paz. “Ho una curiosità. Ma cosa c’è che la “disturba” nella storia della sua famiglia, che la porta ad investigare le dinamiche familiari?”
Ter. La risposta immediata potrebbe essere: non c’è niente che mi disturba, se per disturbo intende malessere. Ma poi a quale famiglia si riferisce? Noi tutti apparteniamo a diverse famiglie. Almeno a tre, quella dei nonni, quella in cui siamo vissuti e la famiglia in cui viviamo. Ma bisogna dire anche che ogni familiare, padre, madre, fratello, sorella ha e vive in una “sua famiglia“, che è diversa, unica, rispetto a quella degli altri componenti. Cioè ognuno ha una sua personale percezione di organizzazione della famiglia in cui vive.
Le faccio un esempio concreto e suo personale. La famiglia in cui è vissuto lei è diversa, da quella, in cui è vissuta e che ha in mente, sua sorella e suo fratello o la famiglia come l’ha vissuta suo padre o sua madre, anche se apparentemente siete vissuti tutti assieme e forse, ma non sempre, con le stesse regole. Ognuno di voi ha una sua storia familiare con capitoli e paragrafi diversi nonostante viviate assieme. E diverso sarebbe il modo di raccontarla dell’uno e dell’altra. Ovviamente ci sono cose e aspetti condivisi, specialmente le basilari regole familiari. Per esempio, che non sia un caso che sia una famiglia di avvocati.
Da cosa dipende la diversità che ogni familiare ha dell’immagine della sua famiglia di appartenenza? Se al posto suo in seduta ci fosse invece sua sorella o suo fratello penso che io mi troverei davanti a racconti familiari diversi. Perché ognuno avrebbe il suo personale punto di osservazione e di esperienza. E più interessante sarebbe se tutti e tre foste in seduta assieme.
Dove sta la differenza? Sta nell’essere famiglia, che sostanzialmente è un intreccio di relazioni con storia, le trame relazionali, e tenuto conto che ogni relazione è unica, per esempio figlia-madre o figlio-madre o fratello-sorella, ecc.….
Quindi la sua domanda cosa mi disturba nella mia famiglia, andrebbe precisata. Cosa impossibile però, perchè a lei sconosciuta, e perchè tutti nel parlare e nel pensare generalizziamo e usiamo categorie rigide e approssimative per definire l’identità dell’altro e della famiglia: tu sei…, io sono…, la mia famiglia è…. Siamo invece tutti in divenire con la nostra unicità.
Paz. C’è una cosa che dovrei imparare, è ascoltare, rispettare l’altro che parla. Ma ciò non implica che invece, pur non conoscendo, possa “intuire”, e questo è stato grandemente stimolato dal rapporto duale con mia madre, portandomi alla presunzione di capire sempre la gente.
Ter. Ma come fa ad “intuire” cosa succede nella mia famiglia a lei sconosciuta e non del tutto conosciuta neanche da me (per questo ho iniziato a scrivere e conoscere la mia storia) e che addirittura ci deve essere qualcosa che mi disturba. Solo perché in terapia mi interesso molto della storia dei pazienti?
Comunque, sarebbe interessante capire, ed è quello che mi interessa di più, da cosa ha dedotto e capito che ci sia qualcosa che mi disturba nella mia famiglia, in questo suo vedermi quasi in uno specchio.
Paz. Ha ragione dovrei imparare a non essere invadente e non avere la presunzione di capire sempre la gente.
Ter. Perchè cambia discorso?
Paz. Non cambio discorso, rispondevo alla sua ultima frase. Poi per dirla come direbbe mio fratello sono dispersivo, e alla fine perdo il filo del discorso, a forza di aprir parentesi.
Ter. “Non cambio discorso”. Vero, il suo non è un cambiare discorso, me ne rendo conto ora rileggendo quanto ha scritto e pensando alle sue parole.
La sua risposta però, è enigmatica, svia, scompiglia le carte, ma solo apparentemente, perché non voluta e non cercata.
Quel dover imparare ad ascoltare, rispettare l’altro che parla è l’ammissione di un limite, o meglio è una modalità di apprendimento conoscitivo antica, appresa già nell’infanzia, apprendimento emotivo che “intuisce” con immediatezza, quasi fosse una necessità istintiva ed emotiva di darsi una risposta a ciò che è sconosciuto. Immagini la situazione di pericolo grave in cui possiamo trovarci. La prima reazione è quella immediata, istintiva di difenderci dal pericolo. Anche se si possono fare errori di valutazione nell’immediatezza del bisogno conoscitivo, errori riconosciuti dopo, quando sono passati al vaglio della conoscenza razionale.
Ormai grazie alle neuroscienze sappiamo che abbiamo due fonti di conoscenza distinte o due strade conoscitive da percorrere per sopravvivere nel mondo. La strada approssimativa, emotiva, ma immediata, (low), comunque funzionale, specialmente quando siamo in una situazione di pericolo, ma meno precisa e analitica. L’altra (higt) più elaborata e raffinata, ma più lenta, perché vaglia attentamente prima di prendere una decisione, è il festìna lente, latino (affrettati ma lentamente).
https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/elogio-della-lentezza-lamberto-maffei/
Entrambe le conoscenze sono necessarie, anche se in apparenza sembrano contrarie e appartengono a zone diverse dell’evoluzione del nostro cervello. Altrimenti il rischio è “la presunzione di capire sempre la gente” andando così fuori strada.
Paz. Alla luce di quello che mi scrive non ho nessun riferimento, avverto, ma comincio a dubitare delle mie capacità intuitive.
Ter. Comunque, per la sua tranquillità, le dico che questo in psicoterapia è un fenomeno frequente, è una proiezione inconscia di un sentimento, di una esperienza sua propria, spostata sul terapeuta. E’ un meccanismo di difesa inconscio di aspetti di noi, emozioni compresse e inibite nel tempo, che non riconosciamo come nostri, non accettati, in quanto “ereditati” e spostati sul terapeuta, come fosse lui il paziente, per avere risposte comprensive sul proprio star male.