La funzione di ponte della teoria dell’attaccamento

 

Luigi Omnis

Ne emerge confermata l’impressione che la teoria dell’attaccamento si proponga, nell’incontro con i vari indirizzi psicoterapeutici, con una positiva funzione di «ponte». È un «ponte» che non si attiva però solo allinterno di ciascun modello, stimolando una ricerca di connessioni tra «realtà esterna» e «mondo interno» che ogni modello, poi, declina secondo le specificità del proprio apparato concettuale; è un «ponte» che si costruisce anche tra modelli psicoterapeutici diversi, perché le questioni sollevate dall’impatto con la teoria dell’attaccamento sollecitano il confronto e la ricerca di intersezioni proficue.

Sotto questo profilo si può davvero affermare che l’interesse trasversale per la teoria dell’attaccamento ha agito da linfa vitalizzante per l’intero campo della psicoterapia, inserendosi in un clima generale di rinnovamento epistemologico in cui alle contrapposizioni dogmatiche sancite da barriere fino a ieri invalicabili si sostituisce la ricerca di interfacce di reciproco interesse. «l continenti», afferma con una suggestiva metafora Jeremy Holmes (1993), «stanno andando alla deriva e ciò che prima era separato comincia a incontrarsi ».

Per rimanere in una dimensione metaforica, la teoria dell’attaccamento, che prevede la regolazione del sentimento di sicurezza ma anche la tendenza esplorativa, pare aver stimolato proprio un movimento di esplorazione e di curiosità verso l’altro, ma a partire dalla «base sicura» delle proprie appartenenze. Attivare il confronto, ricercare punti di convergenza e di integrazione non significa infatti rinunciare alla propria specificità o rischiare processi di omologazione e di giustapposizioni ibride.

Quella prospettiva di complessità che abbiamo delineato all’inizio si alimenta, infatti, di confronti tra punti di vista molteplici che mantengono la loro differenza, ed esclude la creazione di metamodelli globalizzanti che pretendano di riassumere e di omologare gli altri.

Nella sua funzione, più volte evocata, di «ponte» tra modelli, la teoria dell’attaccamento non si propone certo di favorire ibride aggregazioni, né di definire se stessa come modello onnicomprensivo.

Mantenendo la propria autonomia concettuale (cfr. anche Liotti, in questo libro), essa promuove tra i vari indirizzi psicoterapeutici una circolazione di riflessioni, di influenze, di chiavi di lettura che, mantenendo la specificità dei diversi orientamenti, permettano, però, l’uscita da modelli troppo codificati e l’elaborazione di integrazioni più complesse. Con un presupposto di fondo: che non esiste il «luogo del presunto sapere». È lo stesso Bowlby (1988) a ricordarlo in un passo che si riferisce alla relazione terapeutica ma non solo: «Mentre alcuni terapeuti tradizionali potrebbero essere descritti come persone che adottano l’atteggiamento “io lo so, te lo dico”, la posizione che io sostengo è del tipo “tu lo sai, dimmelo”; la psiche umana è fortemente incline allautoguarigione. Il lavoro della psicoterapia è di fornire queste condizioni in cui l’autoguarigione possa meglio avvenire».

Al di là del riferimento specifico all’alleanza terapeutica e alla fiducia e al rispetto per le risorse autoterapeutiche dei pazienti, che escludono ogni impostazione direttiva e pedagogica (altro tema di importanza trasversale per le psicoterapie), c’è in questa frase qualcosa di più generale: una concezione circolare in cui non esiste per definizione «colui che sa», ma in cui ognuno si alimenta del sapere dell’altro.