Nello studio dell’analista ci sono sempre due porte
Massimo Recalcati
“Se seguiamo un’indicazione propostaci da Colette Soler – un’allieva di Lacan – possiamo immaginare che nello studio dell’analista ci siano sempre due porte. Si entra tutti dalla prima. La prima porta è la porta del lamento, è la porta della domanda immaginaria, della richiesta d’aiuto. La domanda si fonda sempre su uno stato di sofferenza del soggetto. […] L’entrata dalla prima porta avviene sempre attraverso il lamento e, come abbiamo visto, al lamento si accompagna sempre una domanda immaginaria (“Tu hai il sapere che può guarirmi”). Ma non è questa la condizione per poter cominciare una cura. […] Se la domanda di aiuto è quella che apre la prima porta, la domanda di analisi apre la seconda porta.
La domanda di aiuto chiede fondamentalmente soccorso, guarigione, terapia. […]
La domanda di analisi rovescia la domanda di aiuto: non è una domanda di benessere, ma di sapere, anche se questo sapere può far stare peggio. […] La domanda di analisi è una domanda di sapere che non esclude il sapere il nostro peggio. Ecco perché la seconda porta è una soglia che esige un atto soggettivo per essere valicata. Non tutti, infatti, sono disposti a conoscere il peggio di se stessi.”
Massimo Recalcati, “La pratica del colloquio clinico. Una prospettiva lacaniana”, Raffaello Cortina, Milano
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Di solito chi chiede aiuto psicoterapeutico si rivolge ad un professionista cercato nel Web o indicato da qualche conoscente, dopo un tempo più o meno lungo impiegato a rimuginare sul suo malessere. E alla fine, preso coraggio, bussa alla porta dello studio professionale.
In genere l’aspettativa ingenua è quella di riuscire superare, ridurre il suo malessere con l’aiuto e con le restituzioni del terapeuta perchè: “Tu hai il sapere che può guarirmi”. E’ la storia di tanti pazienti che giungono in terapia con l’idea magica che qualcuno li salverà. Ma non è così, nonostante la propaganda diffusa di tanti psicoterapeuti di saper fare di tutto. Azzardare con sicumera risposte rassicuranti, sulla base di cataloghi psicodiagnostici standardizzati, è un illudere la persona, perché l’altro non è una semplice somma di comportamenti anomali diagnosticabili su un manuale psicodiagnostico.
Io faccio un primo lungo colloquio gratuito conoscitivo del malessere del paziente, per giustamente capire se posso aiutare chi mi chiede aiuto. Successivamente parlo di me, del chi sono io, e del metodo mio personale della sua eventuale presa in carico. Spariglio le carte in tavola, e gli confesso, dopo tanto parlare, di non sapere la natura del suo sintomo e del suo significato, se non si fa una ricerca nella storia individuale e familiare. Spiego che il paziente è sempre unico in psicopatologia, i suoi sintomi hanno sempre un significato soggettivo ascrivibile alla sua storia relazionale personale.
Bisogna invece fare ricerca accurata, partendo dai segni e dai segnali che il paziente riconosce e che possono essere connessi al suo disturbo, per cui la sua richiesta di aiuto si trasforma in una ricerca di sapere di eventi, di situazioni, di relazioni che hanno potuto, senza saperlo, caratterizzare un disturbo di personalità.
Si apre così la seconda porta del cammino della conoscenza di sé, lungo cammino più o meno accidentato che si fa assieme, inizialmente e prevalentemente in due, terapeuta-paziente, ma a volte con la scoperta di altri viaggiatori e interlocutori sconosciuti, significativi e invisibili, non chiamati, che accompagnano per un tratto.
In questo cammino il terapeuta sta sempre tre passi indietro, ma osservatore attento ai passi del paziente, alle sue indecisioni, alle sue esplorazioni, alle sue perplessità, alle sue delusioni, e pronto a intervenire e sostenere, se le circostanze lo richiedono. Il protagonista è il paziente, è lui che va avanti, è lui che deve mettersi in gioco, che deve sperimentarsi a fare ricerca, fare le interpretazioni sul suo modo di essere misurandosi dialetticamente con il terapeuta per arrivare al sapere, al saper essere in relazione in modo nuovo con gli altri che gli sono vicini.
“So di non sapere”, il motto socratico, è la regola che faccio mia, anche se può scandalizzare, che conduce al “Conosci te stesso”.
Alla fine dobbiamo riconoscere che nonostante la conoscenza acquisita restiamo sconosciuti a noi stessi e agli altri, anche se spostiamo tutte le volte i confini della nostra conoscenza.