Quando una psicoterapia familiare sarebbe stata necessaria: il caso di Mario
Parte seconda
Un’amica del gruppo, Daniela Barbacovi, così commenta il post precedente:
A mio avviso, sarebbe bello non arrivare ad una terapia familiare.
Purtroppo siamo immersi in una realtà politico culturale che nulla fa perché gli individui arrivino preparati all’importante passo che è essere genitori. Perciò il mio pensiero rimane in ambito strettamente idealistico, senza reali possibilità di mutamenti nel prossimo futuro.
Siamo in presenza di forti contrasti di ordine etico, diciamo che il mezzo che più educa è la televisione e le altre interazioni tecniche odierne, che allontanano dalla conoscenza di sé, dal rispetto degli altri, dalla cooperazione.
Creiamo maschere, corriamo senza un tempo per i silenzi che parlano, ci “droghiamo” di falsi valori.
Non è che come gli insegnanti, i terapeuti, i genitori possano sbagliare, è che proprio non c’è a nessun livello la volontà di educare.
Si preferisce il populismo, alla comprensione dei valori, dell’essere umano, con le sue trasformazioni. La filosofia è nozionismo, non già interrogarsi sul senso del vivere.
Commento:
Parto dal famoso detto di Freud: psicoanalizzare, educare e governare sono tre mestieri impossibili. Stando all’arte di educare, perché mai Freud è convinto il mestiere di genitore, di insegnante sono mestieri (“quasi”, lo ha corretto qualcuno) impossibili? Perché l’impossibilità, e in che cosa consiste? Eppure in ambito educativo e anche in quello terapeutico si sono moltiplicati sempre più professionisti del sapere educare in discipline particolari sempre più specializzate, tanto che sta diventando ormai quasi una moda.
Quindi per essere buoni genitori e buoni insegnanti basta il sapere particolare, basta un addestramento specifico, o si richiede forse qualcos’altro di più importante.
Quello che rende difficile l’arte di educare è il fatto che educare fondamentalmente è una relazione in cui si incontrano due soggetti diversi per età, per esperienza, per responsabilità, è un mettersi in gioco, sempre nuovo e diverso nel caso del genitore. Educare è sempre un divenire nel tempo e nelle tappe della vita. Si può essere stati buoni genitori, nell’infanzia, ma non nell’adolescenza o nell’età adulta. In fondo l’educare è un incontro di bisogni, non sempre conoscibili, ma che decidono sulla storia futura.
Tornando al caso di Mario, qual era il suo bisogno se non quello di sentirsi apprezzato dal padre, come era successo nell’infanzia, di sentirsi quasi figlio unico. Ma nell’adolescenza il padre si trasforma diventando evitante, per la prima bocciatura di Mario a scuola, anche se non spegne il desiderio di Mario. Lo rincorre, lo desidera sempre, nonostante il suo apparente rifiuto e ricorda con nostalgia quella volta che il padre è andato a trovarlo in montagna dove lavorava sentendo la nostalgia del figlio. Mario ha pianto di felicità per il dono del padre..
Educare è un crescere insieme emotivamente e non semplice imitazione o contrapposizione, come spesso succede tra padre e figlio. Non ci sono istruzioni prescrittive da seguire per favorire la crescita, perché c’è sempre uno scarto fra il desiderio di un padre o di una madre e il desiderio del figlio. Un padre non può essere un maestro che insegna stili di vita, comportamenti, modi di relazionali personali e sociali secondo suoi schemi educativi, da lui vissuti nella sua storia familiare. La cosa migliore sarebbe quella di far silenzio e aspettare l’attesa del tempo opportuno del dire con saggezza.
Mio padre aspettò alcuni mesi prima di morire per rivelarsi e consegnarmi un testamento vitale: “Mi raccomando, non ti dimenticare di me!”.