Quando una psicoterapia familiare sarebbe stata necessaria: il caso di Mario – Giuseppe Basile

 

Quando una psicoterapia familiare sarebbe stata necessaria: il caso di Mario

Spesso si sente dire, quando si commenta un qualche episodio spiacevole in cui è coinvolto un giovane, Non apparteneva alla famiglia di…?  o, Non era la figlia di…? come se l’appartenere ad una famiglia fosse una garanzia di un buon comportamento, come se la famiglia fosse un sistema compatto, indifferenziato, univoco al suo interno e con regole relazionali indiscusse.

Se si potesse vedere (e sarebbe un buon apprendimento) quello che avviene in una seduta di psicoterapia familiare, ci si accorgerebbe invece delle differenze comportamentali, psicologiche e relazionali fra figli e fra i genitori, tanto da smentire la falsa convinzione che in psicologia valga la regola matematica che 1+1=2, ma invece fa ancora 1, perché l’unicità della persona non è assimilabile a quella di un altro e ognuno conta per sé. Come non ci sono storie familiari simili, ma ogni famiglia ha la sua storia, così ogni familiare ha la sua storia, che può essere non coincidente con quella degli altri. Quindi una famiglia con storie diverse.

E la ricchezza dell’essere famiglia, e famiglia in relazione, sta proprio nella differenza relazionale di visione, di lettura, di esperienza che ogni familiare porta con sé in seduta. Purtroppo oggi è sempre più raro incontrare famiglie in terapia. Perché senza volerlo si attribuisce la responsabilità del malessere familiare a chi in famiglia appare diverso o problematico. Non si riconosce che l’individuo problematico fa parte della rete relazionale che lega la famiglia nel bene e nel male, che ogni familiare appartiene con la sua storia ad una famiglia di origine allargata, almeno trigenerazionale, quella dei figli, quella dei genitori, e quella dei nonni e anche, in alcuni casi, quella dei bisnonni. Storie che però sono intrecciate in una rete complessa di legami relazionali, di cui si può avere memoria di fatti, eventi, successi che si trasmettono anche a livello inconscio, influenzando i comportamenti.

Chi, e cosa ci sta dietro di noi, che ha influenzato la nostra storia e la nostra vita, anche se non lo conosciamo? Apparentemente sembra una divagazione sterile sul passato, perciò inconcludente, il passato è passato, si dice.

Cosa significa allora il malessere che in maniera subdola appare nel comportamento di un familiare ed evolve in una patologia, in un comportamento incomprensibile e indecifrabile: il sintomo. Così il paziente sintomatico di una famiglia viene indicato come “capro espiatorio” sulle cui spalle viene scaricato tutto il malessere del sistema familiare.

Ma il sintomo non è solo patologia, ha una funzione difensiva, è pertanto, e soprattutto, anche una comunicazione per lo più non verbale, è un dire camuffato, una richiesta, a chi gli sta vicino, di essere aiutato.

Una comunicazione che pertanto va decifrata e interpretata nel suo significato simbolico e nella sua storia relazionale e familiare.

Il caso di Mario

Mario viene in terapia dopo essere stato seguito da una psicoterapeuta per quattro anni, ma in modo insoddisfacente.

È penultimo figlio di una famiglia numerosa, con notevole differenza età fra il primo e l’ultimo. Mario ricorda che ha vissuto la sorella maggiore, Lucia, come figura materna, data la notevole differenza di età. Fin da piccolo si è sentito inadeguato nei rapporti con gli altri bambini per l’aspetto fisico obeso, stava bene invece con gli adulti. La madre ha sempre rimarcato questo suo sovrappeso, pensando che così lui potesse trattenersi dal mangiare eccessivamente. Ha avuto un periodo di angoscia di abbandono e separazione, paura di non rivedere la sorella Lucia, che in quell’anno si sposa. Dopo le medie si iscrive all’istituto per ragionieri, dove riesce bene i primi 2 anni, promosso con buoni voti, in terza invece viene bocciato, avrebbe voluto smettere con la scuola ed iniziare a lavorare per sentirsi più autonomo e libero, ma trova la dura opposizione della madre. Continua a frequentare alternando bocciature e promozioni fin quando va a lavorare definitivamente.

Durante l’adolescenza ha ingaggiato con la madre un altro braccio di ferro sul cibo, per cui Mario faceva grandi abbuffate, quando scopriva il cibo nascosto, senza con questo essere bulimico.

Inizia una prima relazione con una ragazza, dopo un po’ non si sente sicuro che sia la persona giusta per lui, comunque la sposa, perché nel matrimonio vede la possibilità di uscire di casa. Dopo tre anni si separano perché secondo lui la moglie era una figura debole, priva di consistenza, che non era in grado nella relazione di opporsi a lui. (avevo bisogno allora di una donna così, che mi permettesse di farmi sentire libero). Seguono successivamente altre relazioni di una durata variabile, tutte fallimentari.

 

Il padre Carlo era la figura debole, ma anche schivo e distanziante emotivamente ed affettivamente con i figli, mentre sul piano sociale, dove era molto impegnato, era riconosciuto come persona molto socievole, altruista, disponibile, diverso dal comportamento che teneva a casa. Emerge in Mario il problema del rapporto con la figura familiare maschile cercata, ma rifiutato

La sua istintiva opposizione all’autoritarismo la riconosce nel fatto di provenire da una famiglia matriarcale rigida, dove la figura forte e potente era la madre Anna, donna molto ansiosa ed iperprotettiva, mentre il padre ha sempre accettato e condiviso le decisioni della madre.

Mario ha sentito il rifiuto del padre, come allontanamento, abbandono, lui che era stato fin da piccolo il figlio preferito, ma anche come grave perdita, quando muore prematuramente, perché non ha più potuto dire le cose che avrebbe voluto dirgli.

Paradossalmente però incontra persone, con cui una relazione sarà difficile e da cui si aspetta un rifiuto. Il rifiuto degli altri è come se fosse una punizione, espiazione di una colpa.

La colpa di Mario potrebbe essere il tradimento delle aspettative del padre, che, quando lui decise di non continuare più gli studi, non gli parlò per un anno.

La malattia del padre è vista da Mario come occasione ultima per avere con lui un dialogo, che fra di loro non c’è mai stato, come non c’è stato con gli altri fratelli. Ma soprattutto con lui, che era stato il più vicino a lui, quello che fin da piccolo l’ha accompagnato nelle sue attività sociali. E qui lui scopriva l’altra faccia del padre, non riconosciuta, tanto diverso era quando era a casa in famiglia. “Mi arrabbiavo vedendolo così diverso con gli altri”, in famiglia era sempre critico, distante, taciturno, senza affetto, “non ho mai avuto da lui un apprezzamento, anche se sapevo che dal punto di vista materiale ero sicuro che mi dava tutto”.

L’ambivalenza del padre ha determinato la sua ambivalenza nei riguardi delle donne, per cui lui si riconosce da una parte, dominante, provocatore, dall’altra accondiscendente, incapace di un rifiuto, con uno spirito da crocerossina.

Ma la sua è ambivalenza? e quella del padre è ambivalenza, o non piuttosto incapacità di esprimere apertamente e verbalmente i suoi sentimenti di affetto, espressi apparentemente in modo contraddittorio e non verbale?

Incapacità del padre Carlo che gli viene dalla esperienza nella sua famiglia di origine, con una madre, figura centrale della famiglia, fredda, anaffettiva, trascurante verso i figli, che restano marginali rispetto al padre. Mario cresce così con il bisogno di attenzione, affetto, stima, ma che non gli venivano dalla madre.

Carlo mette in atto la strategia del comportamento accondiscendente, altruista, di dedizione, funzionale all’ottenimento del riconoscimento desiderato e di cui aveva bisogno. Socialmente invece ottiene l’effetto sperato e si sente appagato, anche se rimane con la carenza affettiva e con l’incapacità di attivare una comunicazione sui sentimenti e sui bisogni.

Ci fosse stata la possibilità di sentire e vedere tutta la famiglia, forse ci sarebbe stata un’altra storia e un’altra famiglia.