Ancora su mio padre

Ancora su mio padre

Un’amica mi fa notare, su quanto ho scritto su Facebook sul ricordo di mio padre, che “Per ricordare un padre comunque non ci sarebbe bisogno di affermare di avere debiti e promesse. … E poi perché un figlio dovrebbe avere debiti?

Provo a cercare di essere più chiaro.

Stiamo parlando della famiglia, delle nostre famiglie, gruppo umano articolato e suddiviso con diverse figure e diverse funzioni che si relazionano in un sistema di interdipendenze. C’è la coppia genitoriale, ci sono figli che si relazionano con ognuno dei genitori, ci sono fratelli/sorelle che si relazionano fra di loro e ognuno con il padre e la madre. Tutto apparentemente semplice ed elementare, ma, anche se non si vede, è un sistema relazionale complesso e con sue regole, alcune dichiarate e altre, più importanti, implicite e sconosciute, regole rigide e regole elastiche. Comunque il sistema relazionale familiare si autoregola anche con il non detto, e si costruisce un modello funzionale e una sua identità finalizzata al benessere e alla sopravvivenza di ciascuno, piccolo o grande che sia, giovane o anziano, uomo o donna. Così da migliaia di anni.

Regole e identità che si trasmettono di generazione in generazione di padre in figlio, ovviamente non in modo rigido, ma in modo graduale, tenuto conto che ognuno dei due coniugi porta con sé l’apprendimento di cosa significa essere famiglia quello vissuto nella propria famiglia di origine. Per questo si dice che quando una coppia si “sposa” è come se si sposasero tre famiglie, ognuna con i propri vissuti, positivi, negativi, ognuna con la sua storia. Nella vita quotidiana, fatta di piccoli rituali, sta la memoria della famiglia, memoria indispensabile a creare il senso di continuità del gruppo; ognuno di noi bambino ha imparato e fatto propri i messaggi relazionali, specialmente quelli non verbali che venivano scambiati in famiglia.

Ma costruire famiglia implica impegno, responsabilità, sacrifici, rinunce, donazioni, anche se fatte con amore. La storia di coppia e quella familiare non è sempre idilliaca e chi è stato adolescente avrà pur visto e forse vissuto nei genitori segni di stanchezza e di sofferenza anche se intuiti nel silenzio.

Di conseguenza è umano, anche se non preteso e quasi mai dichiarato apertamente, aspettarsi un riconoscimento dai figli, di quanto ogni padre e ogni madre ha dato al figlio e di quanto il figlio ha ricevuto. In ogni famiglia è come se ci fosse sempre aperto e mai chiuso un libro contabile non scritto dei conti familiari dove sono scritti debiti e crediti per ciascun componente. Ma non c’è una legge scritta che impegna un figlio a dare quanto ha ricevuto, ma secondo quella non scritta che è l’etica dei rapporti e il senso di giustizia costituitesi in seno alla famiglia, anche se non si arriva a pareggiare i conti, perché un figlio non riuscirà mai a pareggiare del tutto quanto ha ricevuto dai genitori.

E per far capire che queste non sono astrazioni teoriche basti pensare alla conflittualità e rivalità fra fratelli e sorelle che in situazioni di diseguaglianze palesi e intollerabili sfocia in una qualche forma di psicopatologia; figli che per compensare i disastri dei fratelli assumono un ruolo del bravo figlio agli occhi dei genitori, sentendone però l’ingiustizia; figli che assumono un ruolo genitoriale per difendere un  genitore dalla mancanza di cura o assenza dell’altro genitore. E la lista potrebbe continuare, tanti sono i casi concreti che si potrebbero elencare.

Ritorno al mio “Ricordo di mio padre”, là dove mi riconosco debitore “per saldare un debito che ho nei suoi confronti e per essere fedele alla promessa fattagli”.  Se metto assieme i vari capitoli della mia storia non posso non riconoscermi debitore con mio padre senza riuscire a saldare il conto invisibile per quanto ho ricevuto e per quanto io abbia potuto donare. Quando nel ’61 alla fine degli studi al liceo classico si trattò di scegliere la facoltà sentivo la sua aspirazione e il suo desiderio che io frequentassi ingegneria, laurea allora richiesta dal boom economico di quegli anni. Io in cuor mio però avrei voluto scegliere filosofia, studio che mi piaceva. Alla fine scelsi ingegneria forse per “sdebitarmi” verso mio padre. Andai a Milano al Politecnico, anche se era un sacrificio economico, ma mi accorsi dopo un anno di studi e qualche esame sostenuto che non era quello il mio desiderio. Ritornai a casa in Sicilia, e non ricordo che mio padre mi abbia ripreso o che sia stato contrariato per questa mia scelta. Dissi a mia madre che avrei voluto fare Filosofia, ma all’Università Cattolica di Milano. Mio padre con il suo solito silenzio, concordato con mia madre, mi lasciò andare anche se era un costo non indifferente. Così ho fatto la mia fortuna!

Ecco perché io mi sento debitore verso di lui e trovo che la promessa fattagli di ricordarlo nel tempo è diventata qualcosa di più potente. Ho fatta mia quella verità, introiettando così una parte di mio padre facendola mia, e mi sento più ricco.

E rilancio di generazione in generazione!

Commenti

Alessandra Cozzani
Sono molto d’accordo con te Giuseppe soprattutto sul fatto che è il non detto che si tramanda. Ma quello che dici mi ha fatto venire in mente quanto diceva a volte mia madre che non si deve niente ai genitori, che non ci sono debiti perché i figli non hanno chiesto di essere messi al mondo. Mia madre si riferiva a un modo di pensare antiquato ovviamente che non ha niente a che vedere col tipo di debito di cui parli Eppure mi pare giusto ricordarlo, detto da una madre a una figlia, dandole quindi un’estrema libertà esistenziale e si potrebbe anche dire lasciandola sola nel suo vuoto esistenziale, nella sua solitudine e libertà assoluta. Io non ho mai sentito infatti nessun senso di debito verso i miei genitori se non la felicità di quello che mi hanno trasmesso arte cultura bellezza bontà, sento solo mancanza per non averli più con me da moltissimi anni.
 
GiuseppeBasile
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Siamo d’accordo, Alessandra Cozzani,anche se non sembra. Tutto dipende dal significato che diamo alla parola debito e credito. Noi siamo in debito con i nostri genitori per quello che ci hanno dato e che abbiamo ricevuto, non tanto materiale, prima di tutto l’amore, gli affetti, i sentimenti, la cura, i sacrifici che hanno fatto per noi. Dobbiamo riconoscerlo quanto abbiamo ricevuto, non per una regola scritta, non per una giustizia sociale, ma per quello come dici tu “se non la felicità di quello che mi hanno trasmesso arte cultura bellezza bontà”. Se la parola debito la sostituiamo con l’equivalente riconoscimento, ci viene più facile capire che se abbiamo ricevuto gratuitamente, dovremmo ricambiare con la stessa moneta relazionale. Se ricevo affetto e cura, promozione e protezione, specialmente se a costo di sacrifici, direi che è nella natura della relazione il ricambiare il dono, se la relazione è sana. È uno scambio di un dare e un avere. Ma non sempre la relazione vitale, come sono le relazioni familiari, è sana, può essere patologica, e c’è patologia, là dove c’è discordia, assenza di riconoscimento di quanto si è ricevuto gratuitamente. Aver ricevuto, come dici tu, mediante la trasmissione, felicità, arte, cultura, bellezza, bontà per cui sei quella che sei, impegna un ringraziamento quasi istintivo, quasi sempre silenzioso, fatto con il linguaggio non verbale, il linguaggio dimenticato. I fatti, se capiti, parlano. E i fatti parlano anche di ingiustizie relazionali, che avvengono quando gli occhi sono accecati e i cuori induriti. Parafrasando Foscolo, “Sol chi non lascia eredità d’affetti, poca gioia ha dell’urna”, riconoscere l’eredità di affetti ci fa star bene e ci fa vivere più sicuri e ci impegna a fare altrettanto.
Grazie del tuo commento!
 

Alessandra Cozzani
Giuseppe Basile,  Sì sono assolutamente d’accordo ovviamente la mia nota era solo verso un modo di dover essere riconoscenti quasi moralistico molto diffuso per esempio nel sud Italia di molti decenni fa, ma quanto dici è assolutamente condivisibile io amo ancora moltissimo i miei genitori e a loro devo tutto, non ho più incontrato nessuno come loro per intelligenza bontà sentimento dell’arte e della bellezza e capacità di dare agli altri, io credo che fossero migliori di me e sapessero accettare con maggiore tranquillità le difficoltà della vita mentre il mio carattere ribelle non riesce.
Grazie ancora caro Giuseppe
 
 
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