Cari bambini non giocatevi la fantasia Massimo Ammaniti

Cari bambini non giocatevi la fantasia   Massimo Ammaniti

È stato recentemente pubblicato negli Stati Uniti il libro Free to learn (Basic Books, 2013) scritto dallo psicologo americano Peter Gray che sostiene una tesi interessante. Secondo Gray è cambiato il contesto in cui vivono i bambini negli ultimi decenni, infatti mentre in passato i bambini erano abbastanza liberi di giocare organizzandosi fra loro, oggi passano il tempo a scuola oppure in attività dirette dagli adulti, come ad esempio gruppi sportivi, musicali oppure di danza. Aggiungerei che la giornata dei bambini è anche occupata dalla televisione oppure dai videogiochi e quando si avvicinano all’adolescenza da facebook.

Ma qual è il valore del gioco nella vita dei bambini ?

Se guardiamo il mondo animale, in particolare quello dei mammiferi, si scopre che durante l’infanzia i cuccioli passano quasi tutto il loro tempo giocando, rincorrendosi, lottando, arrampicandosi. Si può senz’altro affermare che il gioco si sia sviluppato attraverso i processi evoluzionistici permettendo ai cuccioli di apprendere, di mettere alla prova le proprie capacità ed iniziare a riconoscere il proprio rango all’interno del gruppo, come sosteneva lo zoologo tedesco Karl Groos nel lontano 1898.

Il gioco per i bambini è una necessità vitale perché devono apprendere i complessi codici degli scambi sociali, scoprire situazioni nuove, superare ostacoli imprevisti, coordinare i propri sforzi con gli altri per raggiungere un risultato condiviso. Basta osservare dei bambini che giocano per comprendere il valore e il significato del gioco: non è un’attività imposta, i bambini spontaneamente decidono se partecipare o no, se non si divertono più possono ritirarsi o contrattare per iniziare un altro gioco, fare dei compromessi e stabilire insieme le regole. L’esempio raccontato dalla psicologa americana Carol Gilligan è particolarmente illuminante: un bambino ed una bambina decidono di giocare insieme, il maschietto pretende di giocare ai pirati, mentre la bambina propone di giocare alla famiglia. Il bambino si infastidisce e con aria scocciata si rifiuta di giocare «è un gioco da bambine», ma alla fine dopo vari tira e molla la bambina propone «va bene giochiamo ai pirati che stavano in famiglia».

Prima di giocare i bambini discutono a lungo sul gioco da fare, definiscono le regole, per trovare alla fine un compromesso in cui ognuno rinuncia a qualcosa per ottenere quello che desiderava. Come scrive Peter Gray il gioco è una vera palestra sociale per i bambini, si apprende l’empatia verso gli altri e si comprende quello che gli altri desiderano e vogliono, capacità fondamentali anche nella vita adulta.

E che conseguenze ha questa dilatazione di attività finalizzate dirette da un adulto a scapito del gioco libero sulla personalità in formazione di un bambino? Peter Gray è piuttosto pessimista, la riduzione del gioco libero interferisce con le capacità di empatia e di intelligenza sociale favorendo piuttosto atteggiamenti egocentrici e narcisistici, che osserviamo nei bambini poco abituati a giocare con i compagni.

Una tesi simile era stata sostenuta anche dallo psicoanalista americano Bruno Bettelheim nel suo libro Il mondo incantato, secondo cui le favole tradizionalmente raccontate ai bambini servivano ai bambini per elaborare i conflitti con i fratelli oppure con gli adulti stimolando la ricerca di soluzioni a livello immaginario. Ma anche le favole fanno sempre meno parte della vita dei bambini e questo rischia di impoverire il loro mondo interiore e soprattutto la sfera inconscia che è alla base della ricchezza emotiva e della creatività. E questo sarebbe confermato da ricerche recenti che avrebbero messo in luce “una crisi della creatività” fra i bambini, che sarebbero oggi meno in grado di esprimere le proprie emozioni, meno ricchi di immaginazione, meno entusiasti e meno capaci di inventare prospettive diverse. In altri termini si corre il rischio di educare i bambini scoraggiando la loro creatività, che come è ben noto non si può insegnare ma si può soltanto assecondare.

[…] Forse la vita dei bambini oggi se da una parte è troppo ovattata, dall’altra è troppo condizionata dalle pressioni degli adulti e senza la libertà di giocare le nuove generazioni non potranno mai sviluppare a pieno le proprie potenzialità.

Repubblica mercoledì 8 2013

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Commento

Nella mia infanzia non ricordo che ci sia stato qualcuno che mi abbia raccontato fiabe o “storie”, né mio padre, né mia madre. Sono cresciuto senza questo rituale serale conciliatore del sonno. L’ho scoperto quando sono diventato padre, quando le mie figlie hanno cominciato a capire i racconti e quando mi sono improvvisato narratore, prima per gioco, ma poi per dovere, perché intuivo dalle loro emozioni una immedesimazione nel racconto. In un primo momento erano fiabe e racconti classici, ma poi sono diventati racconti liberi, improvvisati al momento. Ma anche fatti e memorie, pochi purtroppo, della mia vita infantile, perciò necessariamente anche romanzati. Con il passare del tempo mi ha colpito la richiesta preferita del “raccontami quando eri piccolo” che prevaleva su altri tipi di racconti. Ho capito allora che il raccontare parti sbiadite della mia vita era per loro un desiderio di voler sapere e conoscere l’intreccio dei personaggi familiari, il tempo, i luoghi in cui ero vissuto da piccolo. Ma era anche un modo di acquisire la memoria familiare, il passaggio generazionale, l’appartenenza ad una famiglia più larga.

Quando sono diventato nonno ho riattivato lo stesso rituale serale con le mie nipoti nei giorni in cui sono con me. Con la novità però che nei personaggi inventati e raccontati, anche se non sono familiari, costruisco una storia che si esaurisce in una serata, ma altre che hanno vita più lunga e che durano tuttora come quella di “Martina e suo nonno”. Allora i personaggi acquistano una identità, sentimenti, emozioni che fanno scattare in loro meccanismi visibili di identificazione e di proiezione.

Esperienze però che richiedono un tempo propizio, libero e appassionato, anche se breve, il tempo della trasmissione di un messaggio, che non sempre c’è, specialmente durante i giorni di scuola in cui invece il tempo è tiranno. Più facile nel tempo della vacanza. Un tempo mia nipote alla mia sollecitazione di fare presto e veloce nel rispetto delle regole, mi incalzò dicendomi: “ma, nonno, qui siamo in vacanza”, che per lei voleva dire cambiamento di vita, di modi diversi di vivere il tempo, interruzione di uno schema solito, appunto fare un vuoto. E penso che questo reclamare un diritto di cambiamento con altre regole è un’autoeducazione alla elasticità adattiva della vita in un tempo in cui i cambiamenti sono rapidissimi

Confesso anche che qualche volta mi addormento io prima di loro e vengo risvegliato con un richiamo: “Allora, nonno!!”.