“Clinica dello sguardo e clinica dell’ascolto” . . Massimo Recalcati

La malattia mentale non può essere una malattia del cervello, dei nervi, non può essere concepita come una qualunque malattia del corpo. La malattia mentale deve essere letta come un modo particolare del soggetto di essere nel mondo. È la tesi maggiore di Binswanger. Da questa prospettiva derivano almeno due conseguenze precise. La prima è la distinzione tra il concetto di spiegazione e quello di comprensione: un soggetto umano non si spiega come si spiega la pioggia, non si spiega come si spiega un qualunque fenomeno naturale, non si spiega secondo una causalità lineare (una determinata causa che produce un determinato effetto). La realtà umana, la realtà del soggetto si comprende.

Massimo Recalcati, “La pratica del colloquio clinico.Una prospettiva lacaniana”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, p.6

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Commento

 

Vero che “la realtà umana, la realtà del soggetto si comprende e non si spiega”, che la malattia mentale non può essere ridotta solo a sintomo comportamentale, a semplice mal funzionamento di circuiti neuronali, per cui basta curare il sintomo per ripristinare l’equilibrio psicofisico della persona. Sarebbe confondere la causa con l’effetto.

Il sintomo non è solo patologia da estirpare ad ogni costo. Il sintomo significa qualcosa, è dotato di senso, è messaggio, è relazione, è soprattutto comunicazione, anche se comunicazione metaforica. Non è solo patologia classificata, etichettata in un manuale psicodiagnostico, a cui si possa attingere per avere ragguagli su come possa essere curato ed eliminato. Il sintomo comunica il disagio di un modo di vivere e di essere nel mondo, è qualcosa di cui parla e su cui si lavora, ma non si sa con certezza cosa sia, perché il sintomo ha una natura metaforica, comunica qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, qualcosa che va ricercato con pazienza, passione e desiderio di conoscere per aiutare. Il sintomo è un modo della persona di essere nel mondo, o meglio nel suo mondo, anche se agli occhi dell’altro appare un mondo incomprensibile, e soprattutto al paziente. Ma il paziente non è solo sintomo, è anche una molteplicità dimensionale di risorse e capacità, magari oscurate, con cui mettersi a fianco in un cammino verso una “direzione” da costruire assieme, paziente e terapeuta, alla ricerca dell’origine della sofferenza. Il dove andare, il dove cercare non è dato a priori, non scaturisce da un sapere dogmatico e precostituito in cui incasellare la persona, ma da un “non sapere” che mi permette di essere libero nel “navigare a vista” con la persona che si affida fiduciosa a me. E navigare a vista implica di essere almeno in due, il timoniere a poppa e un osservatore a prora che vede, scruta il fondo del mare e che manda segnali al timoniere sulla direzione da prendere e su come affrontare il mare per non incagliarsi sugli scogli. Se nel timoniere possiamo riconoscere il terapeuta, chi scruta, osserva e invia segnali è la persona in terapia. Se poi si è in più, la famiglia, meglio ancora, aiutano tutti a capire e vedere meglio, perché ognuno ha il suo punto di vista che ha una interazione con quello degli altri facendo “sistema familiare”.

Ma bisogna dire anche che la relazione di aiuto terapeutico, la comprensione del mondo dell’altro sofferente, nella realtà mal si addice ai tempi canonici contingentati, alla fretta dell’ascolto, ai bilanci economici e al guadagno professionale, nè tanto meno alle scorciatoie farmacologiche, di cui vedo a posteriori i disastri: il graduale annullamento della persona. Ed è cosa ancor più dura poi porre rimedio a questi disastri. L’autentica relazione di aiuto non ha prezzo proporzionale all’impegno richiesto, ma richiede un grande valore etico verso la persona che soffre, ed un essere capaci di “soffrire con chi soffre e gioire con chi gioisce”.