Desiderio del desiderio dell’altro
Massimo Recalcati
[…] il desiderio umano, il desiderio come ciò che umanizza la vita e la separa dalla vita animale — uso le parole del mio maestro – è “il desiderio del desiderio dell’altro”. Di che cosa si soddisfa il desiderio umano? Si soddisfa nel fatto di essere desiderato da un altro desiderio. Il desiderio non si soddisfa cosi come si soddisfa l’istinto animale, l’istinto per cui, ad esempio, io in questo momento ho sete. La sete si soddisfa nel bere acqua…… Ora, l’istinto animale è inscritto biologicamente: cosi la fame, la sete, la necessità di respirare.
Ma la vita umana non si realizza attraverso l’istinto animale. C’é la necessità di un supplemento. Se osserviamo un gattino e un bambino attaccati alla mammella, al seno della propria madre, vediamo in realtà qualcosa di simile all’inizio della vita: è la vita che vuole la vita. Il gattino si aggrappa alla mammella con la stessa forza con cui il bambino si aggrappa al seno: non c’è differenza. La vita vuole vivere, la vita vuole la vita, la vita è sete di vita.
Ma c’è un punto in cui la vita animale e la vita umana si differenziano, ed è quando la vita umana prende la forma dell’appello all’altro, dell’invocazione dell’altro, — potremmo dire radicalmente – della preghiera: la vita umana è vita che si rivolge all’altro. Tutti noi siamo stati “grida nella notte”, tutti noi abbiamo avuto esperienza di essere un grido nella notte. Un bambino che urla nel buio: tutti noi siamo stati questo bambino che grida nella notte, tutti noi abbiamo fatto esperienza del grido. Allora, quando si umanizza la vita? Quando questo grido che noi siamo stati viene ascoltato dall’altro, tradotto in domanda d’amore, tradotto in domanda di presenza. Il bambino che urla nella notte con il corpo febbricitante trova la traduzione del grido in domanda d’amore se c’è un altro che risponde. È la risposta dell’altro – “Ci sono, sono con te, sono presente” -, dunque la responsabilità dell’altro che traduce il grido in domanda d’amore.
Questo è il punto in cui la vita si umanizza: nel momento in cui il grido è tradotto come domanda d’amore. Cito spesso una cosa che mi ha sempre molto colpito di Sigmund Freud, della sua esperienza biografica. Freud parla di una nipotina che ha paura di dormire al buio e che chiede alla sua mamma, ogni volta che deve andare a dormire nel suo lettino, di essere con lei. La mamma le dice: “Adesso è l’ora in cui ti devi addormentare, devo spegnere le luci”. La bambina si angoscia e risponde: “Sì, spegni pure le luci, ma resta qui con me, perché la tua parola è luce; se tu parli è la luce”. Questo è il punto che discrimina la vita umana dalla vita animale: è l’appello alla risposta, è l’appello alla presenza, è il fatto che il mio desiderio esiste se è riconosciuto dal desiderio dell’altro. Quindi il desiderio umano si soddisfa non di un pezzo del corpo dell’altro, non di un oggetto, ma attraverso il desiderio dell’altro, attraverso la sua presenza. […]
La forza del desiderio, Massimo Recalcati, pagg. 12-14
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Basile Bottega Dello Psicoterapeuta
Il desiderio dell’altro che umanizza la vita è il desiderio di amore, il desiderio dell’altro che risponde ad un appello, che si fa presenza nella vita. L’alternativa è la solitudine, che non è una scelta, ma un ripiego. Il dramma vissuto – e che spesso viene rappresentato in psicoterapia – è quando non si incontra un altro che risponde al mio desiderio di essere ascoltato, di essere amato, al mio desiderio di vita. Che sia una bambina che mi dice che ha avuto una mamma assente e cattiva, che sia un adulto alla ricerca delusa di un altro che dia senso alla vita, che sia un anziano che fa i conti con la solitudine o un cagnolino che dall’alba sento abbaiare, abbandonato nel poggiolo di fronte a me, in tutti risuona il “grido nella notte”, davanti al quale spesso, dobbiamo confessarcelo, rimaniamo muti, sordi, ciechi e impotenti. E se quel grido rimane inascoltato, e se non trova risposta, il bambino che è in noi urla sempre più forte fino a quando, deluso, il grido diventa silenzioso e quindi incomprensibile all’altro.
Il problema è quando quel grido rimane inascoltato, «lo sono qui, tu dove sei?»[1], quando subentra l’incomunicabilità, allora il rischio è quello di rifugiarsi nella non comunicazione, nel rifiuto dell’altro, nel silenzio patologico, nel sintomo, che non è solo patologia, ma paradossalmente una difesa, un bisogno di sopravvivenza, comunicato con un linguaggio sconosciuto, incomprensibile, indecifrabile. Si fa presto allora definire l’altro che grida, malato, folle, perché i suoi comportamenti sono fuori dagli schemi sociali, una comunicazione senza senso apparente, divergente dai codici comunicativi standardizzati.[2]
Tanto più se si tratta di un bambino che viene definito problematico per la sua divergenza rispetto ai comportamenti usuali che non sono solamente “strani”, ma significativi se si riesce ad entrare nel suo mondo infantile e nel suo mondo relazionale.
Ma gli adulti, i più fortunati, se c’è autocoscienza, si rivolgono agli esperti della patologia, psichiatri o psicoterapeuti, imboccando però, a volte, senza saperlo una strada avventurosa, perché il sintomo va compreso, decifrato o sbrigativamente eliminato. Richiede un tempo di ascolto più umano, “una marcia pacata e silenziosa. La cura singolare si carica di una lentezza che offre un momento essenziale per fare della “solitudine”, non un isolamento securitario, ma un passaggio necessario e propedeutico alla ri-apertura”.[3] Non può essere un tempo affrettato, un tempo standardizzato dalla regola, un tempo monetizzato, non ci sono terapie brevi e veloci, tanto propagandate oggi. Ogni caso richiede il suo tempo, né breve né lungo, è il tempo sospeso, come lo chiamo io, perché ogni persona che soffre è unica, ha il suo dolore, che è unico e sconosciuto ad entrambi i protagonisti della terapia: il paziente e il terapeuta. E il tempo dell’ascolto è un tempo lento per eccellenza, che richiede passione e desiderio di ricerca.
[1] Michela Marzano, Volevo essere una farfalla – pag. 120
[2] Esemplare la rappresentazione nel film Joker
[3] Stefania Leone. Divergenze 24.11.19 pag. 3