Fare i conti con le nostre ferite – Michela Marzano

Fare i conti con le nostre ferite

Michela Marzano

Dici che la sofferenza non serve a niente. Ma non è vero.

La sofferenza serve a far urlare.

Per farci avvedere dellinsensatezza.

Per permetterci di notare il disordine.

Per scorgere la frattura del mondo.

Dici che la sofferenza non serve a niente.

Ma non è vero.

Serve a dare testimonianza del corpo spezzato.

Jeanne Hyvrard, La meurtritude (Paris, Minuit, 1977)

Cosa fare delle nostre ferite? Non potrei rispondere a questa domanda senza iniziare dalla mia esperienza personale, senza raccontarvi alcune delle ragioni che mi hanno spinta a occuparmi della vulnerabilità e della fragilità della condizione umana.

Se dovessi «riassumere» la mia vita in una frase, per lo meno così come è stata fino a una ventina d’anni fa, direi che si è trattato della storia di una «riuscita». Ero riuscita in «tutto». Per lo meno da un punto di vista sociale ero stata la «prima della classe». Ero stata una ragazza obbediente e «perfetta». L’orgoglio dei miei genitori e dei miei insegnanti. Ero stata accolta alla Normale di Pisa. Avevo portato brillantemente a compimento il mio percorso universitario. Ero stata «programmata» per diventare un «animale da concorso» ed ero riuscita a diventarlo … Poi, in modo inaspettato (per tutti: genitori, insegnanti, amici, me stessa), si verificò la caduta, la disperazione … la traversata dell’inferno. La prova vivente di quel che un giorno aveva detto Georges Canguilhem[1] sottolineando che nella vita, sovente, «le riuscite sono fallimenti ritardati».

[…] Senza alcuna ragione apparente, dall’ oggi al domani, ero «caduta» nell’ incubo dell’anoressia. Senza rendermene conto, mi ero rinchiusa da sola dentro una «gabbia dorata», senza riuscire più ad andare avanti. Prigioniera del mio sintomo, avevo la sensazione che ormai nulla fosse più possibile, che la mia vita non valesse più la pena di essere vissuta, che non mi restasse altro che aspettare di lasciare questo mondo in cui per me non c’era più posto.

A poco a poco, sono stata risucchiata dal vuoto. Un vuoto sterile e intransigente. Un vuoto che avevo l’illusione di riempire con il cibo e di combattere con il vomito. Fino a che il mio corpo, cancellato dalla violenza di tali gesti, non provasse più nulla. Desideravo diventare uno scheletro, consumare la mia carne, vomitare il mondo. Non volevo occupare lo spazio e cercavo di divenire trasparente per poter finalmente «essere». Al di là delle aspettative altrui, al di là del loro desiderio. Al di là dei ruoli che avevo sempre rivestito. Ma il mio corpo mi teneva perpetuamente prigioniera. Era solo materia che immagazzinava il dolore. Calmare compulsivamente la fame, riempirmi, svuotarmi, erano per me un modo di sottrarmi    alla mia ferita interna, di conferirmi una pienezza immaginaria. Ero abitata da una dialettica forsennata. L’immediatezza di un capovolgimento continuo tra vuoto e pieno, pieno e vuoto. Ma si trattava soltanto di una soluzione illusoria. Poiché il cibo che attraversava il mio corpo non poteva bruciare la mia sofferenza se non per un tempo limitato. Non poteva colmare il mio vuoto se non per un istante. Il tempo di passare dalla cucina al bagno. Il tempo di ficcarmi le dita in gola. Il tempo di ritrovare la mia lacerazione dopo il vomito.

Ciò di cui mancavo era unimmagine unitaria di me stessa; ciò di cui avevo bisogno era la certezza di essere viva e di occupare un posto nel mondo; ciò di cui soffrivo, era la perdita di uno sguardo damore che avrebbe potuto (e dovuto) insegnarmi a essere materna per me stessa, a darmi il diritto di esistere nonostante le mie debolezze.

[…] Mi sono sottoposta a una lunghissima psicoanalisi …

Per scoprire a poco a poco che, dietro l’immagine della mia infanzia idilliaca che tante volte era stata indicata come un modello, vi erano in realtà relazioni complesse, alimentate dall’ansia dei miei genitori. Ciò che contava, ai miei occhi, per molto tempo era stato essere «performante», «perfetta» e «irreprensibile», per rassicurare i miei genitori e far loro piacere a scapito del legame con i miei affetti …

Ed è solo quando ho iniziato ad accettarmi per quella che sono, con le mie debolezze e le mie imperfezioni, che ho potuto cominciare finalmente a vivere. A essere oggi fra la gente.

Ma, per riuscirvi, devo fare una deviazione. Si tratta stavolta di una «deviazione teorica», vale a dire una breve descrizione dell’ideologia dominante nella nostra società. Che spiega, almeno in parte, il rifiuto contemporaneo di qualunque tipo di fragilità e di ferita. In quale società viviamo oggi? Perché risulta tanto difficile accettare la vulnerabilità degli esseri umani? Perché è così difficile riuscire a «fare qualcosa» delle nostre ferite?

Michela Marzano Cosa fare delle nostre ferite

 

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Commento

Nessuno di noi nasce senza ferite. La nascita stessa è la prima ferita del distacco primitivo, testimoniata dal pianto, dall’urlo, dallo strappo. Ferite che si rimarginano o che invece accompagnano, se non curate, lungo tutta l’esistenza. E’ stato sempre così e sarà sempre così.

Per ogni cosa c’è il suo momento,

il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.

C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,

un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

Ecclesiaste 3,1-15

Che fare allora delle ferite, si chiede e ci chiede Michela Marzano. Possiamo nasconderle, camuffarle, sentirle e non curarle, specialmente quando si tratta di ferite psichiche, di un modo di essere nel mondo e di vivere la vita. E soprattutto se si è soli, se la sofferenza è vissuta nel silenzio, se non si è accompagnati, o non si è capiti pur se si è accompagnati, o non si è capaci di comunicare la sofferenza.

Qualcuno potrebbe chiedere: Allora che si fa? Apparentemente è una domanda senza risposta, perché la risposta è sempre unica, personale, non può esserci una stessa risposta per tutti.

La mia ho cominciato a pormela quando ho scoperto l’utilità del silenzio, del rientrare in se stessi, di quel ritirarsi in se stessi nel silenzio, di quell’interrogarsi nella solitudine, lontano dal rumore convulso della vita di tutti i giorni. Pratica che ho cominciato a Milano, durante i miei studi di filosofia, accolto per alcuni giorni dai monaci circestensi nel silenzio dell’Abbazia di Chiaravalle. Ho mantenuto fede a questa pratica per diversi anni e ogni anno prima di cominciare l’anno scolastico.

Ma quando questo non è possibile, quando da soli si rimane impigliati in una rete di domande senza risposte, che appunto per questo si moltiplicano, si inseguono e assillano, quando il dialogo si interrompe perchè non si è capiti, il rischio è quello di un ritirarsi patologico, di rompere i contatti e le relazioni, o difendersi elaborando lentamente un qualche sintomo comportamentale significativo del suo malessere.

Ma prima di rassegnarsi all’impotenza, al rifiuto, allora è il momento di chiedere aiuto a chi sta accanto al paziente per poter capire le sue ferite. Non ci sono tecniche e strategie sperimentate che possano aiutare, è il tempo dell’amore ritrovato che salva e che spinge, non tanto ad un ritorno all’indietro, ma ad un andare avanti verso un cambiamento di un modo nuovo di essere e di vivere, cominciando come ha fatto Michela Marzano “con l’accettarmi per quella che sono, con le mie debolezze e le mie imperfezioni, che ho potuto cominciare finalmente a vivere”. E imparando ad essere madre di se stessa in assenza di una madre che avesse uno sguardo d’amore.

 

[1] Georges Canguilhem, La connaissance de la vie, Paris, Vrin, 2003, p. 206, trad. it. La conoscenza della vita, Bologna, Il Mulino, 1976.