Articolo lungo e appassionante, per chi si avvicina alla vecchiaia, o per chi c’è già dentro come me, per prendersi il tempo di fare i conti per continuare a vivere meglio possibile
Gabriella Caramore: il coraggio della vecchiaia
Cantava Guccini: “I vecchi subiscon le ingiurie degli anni/Non sanno distinguere il vero dai sogni/ I vecchi non sanno nel loro pensiero/Distinguer nei sogni il falso dal vero” (Il vecchio e il bambino). Una canzone bellissima, pervasa dalla struggente malinconia di chi guarda un mondo che non riconosce più, perché non è più il suo.
Ma la vecchiaia non è destinata per forza ad essere un tempo fermo e malinconico in cui quasi niente succede, niente di bello almeno. Una specie di attesa più o meno lunga della fine. Sì, spesso è un tempo vuoto di accadimenti, o di responsabilità e riconoscimenti, ma dipende soltanto da noi riempirlo di valore, di cura per tutto quello, e spesso è tanto, che si è trascurato durante la vita attiva. Ecco, la vita diventa meno attiva ma più interiore, spirituale; la mente, coltivata, può darci emozioni non meno intense di quelle che un corpo prestante ci permette. Però bisogna prepararsi altrimenti l’occasione ci sfugge tra le mani e ci si perde in rimpianti e smarrimento.
Di tutto questo tratta l’ultimo libro di Gabriella Caramore, una raccolta di riflessioni sulla vecchiaia che lei chiama L’età grande (ed. Garzanti); grande non solo, spiega, per gli anni accumulati, ma soprattutto perché è un’età di grandi sfide. La prima, la più importante, è viverla in consapevolezza. Senza negarla fingendo un inutile, talvolta ridicolo giovanilismo, ma anche senza lasciarsi sommergere dalla tristezza, dai rimpianti o, peggio ancora, dal rancore o dall’invidia per chi è giovane e guarda con speranza al futuro.
Lo stesso diceva, in altro modo, James Hillman in La forza del carattere (Adelphi), sottolineando l’importanza degli ultimi anni – non necessariamente pochi – perché chi resta dopo di noi ci ha conosciuti nella nostra vecchiaia e ci ricorderà come siamo stati da anziani. Per questo l’età grande va vissuta con onore e generosità. La nostra eredità, scrive Hillman, sarà l’esempio che lasceremo, il senso della bellezza del mondo che sapremo trasmettere: «Prima di andarcene, dobbiamo ottemperare alla nostra parte del patto di reciproco sostegno tra gli esseri umani e l’essere del pianeta, restituendo quello che abbiamo preso, assicurandoci che esso duri anche dopo di noi». Per questo, continua, la vecchiaia non è un tempo irrilevante e vuoto, ma sono gli anni necessari affinché possiamo confermare e portare a compimento il nostro carattere.
Gabriella Caramore affronta il tema della vecchiaia con delicatezza e sensibilità, annodando riflessioni personali sul suo avanzare in questa terra necessariamente incognita, muovendosi tra il desiderio di inoltrarsi con fiducia in una stagione del tutto nuova, un tempo di scoperte e di «eroica impotenza», come lo chiama Floriana Scott-Maxwell, e un’inevitabile malinconia per quello che si lascia alle spalle. Soprattutto una nostalgia struggente per le persone amate.
La vecchiaia richiede coraggio e va preparata negli anni che la precedono. Non s’improvvisa e, a dire il vero, non arriva all’improvviso, siamo noi che, prima di vedercela stampata in faccia o di sentirla nelle ossa, ne ignoriamo i segni premonitori. Ci vuole coraggio perché nella vecchiaia, come nell’adolescenza, tutto cambia, fatichiamo a riconoscere e ad accettare le trasformazioni del corpo; anche la mente cambia, siamo più lenti, sembriamo incerti e insicuri. Adolescenza e vecchiaia sono le stagioni più complesse della vita. La prima, però, affronta sì ostacoli e problemi nuovi, ma lo fa guardando al futuro, con la forza e l’energia che nasce dal tendere verso un obiettivo di vita e di gioia. La vecchiaia, invece, pur essendo una benedizione non concessa a tutti, ha poco futuro davanti, pochi desideri; il tempo diviene, insieme, troppo breve per sognare e troppo lento per entusiasmare. «Troppo spesso, scrive Caramore, i vecchi avvertono l’inutilità del loro vivere perché non partecipano più all’attività produttiva…Occorre provare a uscire dal gorgo di un pensiero stagnante. Non continuare a chiedersi: “a che cosa servo ora che non ho più un ruolo?”, ma piuttosto “ora che finalmente non ho più un ruolo, come posso ancora raccogliere il senso che la vita forse mi sta offrendo?”. E considerare come realisticamente possibile – e auspicabile – il passaggio da una vita “piena” a una vita “essenziale”, da una vita “socialmente utile” a una vita “sensatamente inutile”. Come “sensatamente inutile” è la bellezza, la creazione artistica, la musica, la poesia, una carezza, uno sguardo. Inutile. Ma necessaria». Ci vuole molto coraggio per riuscire a vivere una tale libertà.
E ci vuole saggezza. La saggezza che si può acquisire soltanto quando si è consapevoli della propria finitezza, accogliendo la propria irrilevanza serenamente, «imparando a contare i propri giorni», come suggerisce Enzo Bianchi citando il Salmo 89. I vecchi, scrive nel suo libro La vita e i giorni (ed. Einaudi), dovrebbero fare come la civetta, «svegliarsi al crepuscolo della vita e imparare a cantare». Molti lo fanno raccontando quello che hanno imparato, visto e vissuto. Altri proprio durante la vecchiaia sono chiamati ai compiti più importanti che la vita serbava per loro. Lo stesso Bianchi, ormai ottantenne, ha cominciato una nuova esperienza comunitaria dopo avere sofferto il fallimento del suo primo progetto.
Non si dovrebbe parlare di vecchiaia, piuttosto di persone vecchie, sostiene Enzo Bianchi, perché «non esiste la vecchiaia ma ci sono vecchiaie al plurale e soprattutto donne e uomini vecchi ognuno con il proprio tragitto e il proprio esito», con il suo carattere e la sua condizione personale. Ogni vecchiaia è diversa e «le differenze… sono date da un intreccio tra indole individuale e situazione sociale», scrive Gabriella Caramore chiedendosi se vi sia, e quale, differenza tra «l’anziano che ha dietro di sé, o che lascia davanti a sé, figli e figlie, nipoti e pronipoti, e chi invece non ha discendenza», se la vecchiaia sia sentita in modo diverso da un uomo e da una donna: «io credo vi sia una particolare sensibilità femminile alla decadenza del corpo».
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Commento
Non so quando si entra nella cosiddetta vecchiaia, perché la vita non è una suddivisione netta di età, di numero di anni compiuti, ma è invece una continuità del vivere, seppure in modi diversi. E’ una percezione di sé che cambia giorno dopo giorno, che cambiamenti inizialmente possono apparire occasionali, e alcuni lo sono, mentre altri si aggravano e diventano permanenti. Non vivo il mio tempo come se la vecchiaia fosse un tempo vuoto da trascorrere in solitudine in casa propria, per chi ha questa fortuna, o in una residenza per anziani. Penso e vivo questo mio tempo, pur nella continuità, come un altro modo di essere e di vivere la vita. Non si tratta di riempire in qualche modo un vuoto, un non far niente, aspettando un non so chi e che cosa. Lo spettro della morte in una persona anziana è sempre presente, anche se non ne parla, ne ha consapevolezza, e probabilmente nel silenzio conta i giorni fra sé e sé, se ha memoria e consapevolezza.
“Insegnaci a contare i nostri giorni/
e giungeremo alla sapienza del cuore/”
recita il salmo (89:12).
E Ungaretti ci ricorda con una poesia di quattro versi che:
Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Certamente in mio padre era presente questa consapevolezza nella sua tarda vecchiaia e nel suo silenzio vitale, quando mi chiede, rompendo il silenzio in cui eravamo entrambi: “Mi raccomando, ricordati di me”, avendo forse la percezione che il suo tempo era quasi finito. Morirà tre mesi dopo. Ma mi ha lasciato questa preziosa eredità, che apparentemente è poca cosa, ma per me è stata una scossa, mi ha fatto capire che bisogna lasciare una eredità a chi ci sopravvive:
“Prima di andarcene, dobbiamo ottemperare alla nostra parte del patto di reciproco sostegno tra gli esseri umani e l’essere del pianeta, restituendo quello che abbiamo preso, assicurandoci che esso duri anche dopo di noi»
(James Hillman in La forza del carattere)
Andarcene con la speranza di essere ricordati per quello che abbiamo fatto e abbiamo dato, e quindi di essere ancora presenti nella memoria e nella riconoscenza.
Perciò la vecchiaia è un tempo di ripensamento del cosa fare e del come vivere. In questo io mi sento un fortunato, perché ho avuto la fortuna di fare due mestieri per scelta e non per obbligo, prima insegnante per ventisette anni, e poi, e ancora, psicoterapeuta per passione. E il secondo mi lascia libero di scegliere quando il mio tempo è finito, quando le forze e la mente non me lo permetteranno. Entrambi i mestieri per me sono stati e sono fondamentalmente un prendersi cura dell’altro, gli uni, gli studenti, nel crescere, gli altri, i pazienti, nel liberarsi di vincoli e pesi che il vivere comporta. Mi fa piacere quando i miei ex studenti si ricordano di me e mi invitano ai loro ritrovi annuali, anche se non li ricordo tutti. Sono ancora lì, in parte come loro si ricordano di me, in parte cambiato come sono ora.
Perciò non posso dire che il mio è un tempo vuoto, da riempire con le offerte che le agenzie specialistiche propongono con musiche, balli, danze, viaggi e altro ancora.
Accetto la sfida di essere attivo e presente nel tempo che vivo, è una sfida consapevole a ritenermi ancora utile, anche se la memoria si annebbia e la parola si inceppa, ma tengo ancora aperta la porta dello studio per chi bussa e chiede aiuto, e per chi non può senza richiedere ricompensa.
“Non si dovrebbe parlare di vecchiaia, piuttosto di persone vecchie”, ci ammonisce Enzo Bianchi. La vecchiaia non è di per sé una malattia che prima o poi quasi tutti ci tocca, e se è accompagnata da un malessere, questo, come tutte le patologie, è un accadimento personale, unico, anche se i sintomi possono essere comuni. Perché c’è un modo soggettivo di vivere la mancanza, il disorientamento, la malattia, l’accettazione e il rifiuto, e la scelta della morte.