Il contagio del desiderio 1 – – Stefania Leone

Quando il bambino era bambino,

era l’epoca di queste domande:

perché io sono io, e perché non sei tu?

perché sono qui, e perché non sono lì?

quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?

la vita sotto il sole è forse solo un sogno?

non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo

quello che vedo, sento e odoro?

c’è veramente il male e gente veramente cattiva?

come può essere che io, che sono io,

non c’ero prima di diventare,

e che, una volta, io, che sono io,

non sarò più quello che sono?

(Peter Handke, Elogio dell’infanzia)

 

L’impotenza di essere umani

In questa bolla, chiamata quarantena, realizziamo gli effetti della distanza dall’Altro. L’atmosfera sospesa, che avvolge la vita quotidiana, nutre i ricordi. Penso a chi non incontro, a chi non c’è più, distante da me, fuori da questo luogo chiamato Mondo. Penso alla fotografia di Gabriele Basilico, alla potenza delle sue immagini che raccontano la città nella sua debolezza, nella sua imperfezione, nella sua ferita. Penso alle vedute aeree di Bruno Ganz nei panni di Damiel, l’angelo che vola ne Il cielo sopra Berlino, che rinuncia all’immortalità per “nascere uomo”. Credo che la vita sia anche questo dolore, dolore di sentirsi “pesanti”, impotenti. L’impotenza di essere umani.

Penso a come avremmo vissuto questa esperienza virale, io e i miei genitori, tutti e tre, insieme. Isolati da tutto e da tutti. In una casa che normalmente isola dagli altri. Ora, in questa casa, che mi sembra più grande, troppo vuota, troppo muta, riscopro come era piacevole ascoltarli. Lo sapevo anche prima, e li volevo trattenere per ascoltarli ancora. La loro stanza vuota è diventata un ricettacolo di ricordi confusi. Loro sì, che avrebbero saputo affrontare la guerra al “microbo”. Un essere tanto piccolo e tanto potente. Mia madre mi avrebbe raccontato le sue storie di quando era bambina e correva con suo fratello e sua sorella in campagna, perché in città era impossibile stare, le bombe avevano distrutto il centro storico. Mia madre le ricordava le bombe e ricordava la città deserta. Come mio padre ricordava il pane che non si trovava. Tutti a comprarlo ordinati in fila. Lo dovevi conservare perché non ne davano tanto. Oggi siamo in fila al supermercato, distanti un metro, con la mascherina e un autocertificato. Nessuna bomba cade dal cielo, ma un microbo ci cambia la vita.

Nel tempo che elegge il rapporto con l’altro, come moto predatorio o sfuggente del legame, è arrivata la sentenza del virus. Comprendiamo, forse, che l’unità minima che forma la nostra società, è insita nelle nostre case. Abitazioni sempre più sterili, vuote, drammaticamente tecnologiche e “intelligenti”, riflettono il nostro modo di relazionarci con gli altri, abitando vuoti anziché mancanze.

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Commento

Per una fortuita coincidenza di lettura le stesse primitive domande che si fa il bambino di Peter Handke, Elogio dell’infanzia, le trovo nel bambino di 95 anni di Jean d’Ormesson (Che cosa strana è il mondo – Edizioni Clichy 2015). E probabilmente sono quelle che si fa il bambino che è in noi. E più noi cresciamo, più il bambino interiore si sveglia, e più queste domande si fanno insistenti. Restano domande senza risposte plausibili. “Risposta non c’è o forse chi lo sa, caduta nel vento sarà”, cantava Bob Dylan. E ancora sono le stesse domande che si fecero i primi uomini quando presero coscienza di sé dando inizio alla storia della filosofia. È il mistero che ci accompagna dalla nascita e di cui ne abbiamo consapevolezza esistenziale quando la percezione soggettiva dello scorrere dei nostri anni ha una improvvisa accelerazione. «Nessun uomo è un’isola completa in se stessa – scriveva John Donne circa quattrocento anni fa – ogni essere umano è una parte del continente, una parte del tutto. Non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te». E ognuno deve dare la sua risposta personale al significato del rintocco della campana: È un allarme?, Una chiamata a raccolta?, Un messaggio di morte? O un rintocco di gioia?

Comunque suona per te, per ognuno di noi. Per me il rintocco è un segnale di allarme collettivo, epocale, di catastrofe avvenuta. Confesso che mi sento impotente a rispondere alla chiamata, probabilmente perché sono scettico che si possa cambiare il mondo e gli uomini, convinto che dopo la tempesta, non saranno più saggi e più umani. Ritorneranno ad essere quelli di prima, quelli di sempre, “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”, ognuno baderà a se stesso, ai suoi interessi, al suo tornaconto, alle sue personali passioni maligne. In attesa del prossimo rintocco della campana.

Io mi auguro che da questa esperienza traumatica possa sbocciare almeno la speranza della fratellanza, che è possibile coltivare nel piccolo orticello di casa, riconoscendo nell’estraneo che bussa alla mia porta un fratello sfortunato che chiede aiuto. E non è cosa facile come può sembrare, perché è un andare controcorrente.

Infine mi auguro ancora che questa esperienza di forzata clausura ci aiuti a riscoprire il valore e il senso dello stare in casa, anche se può sembrare paradossale che da un limite, da un obbligo possa nascere qualcosa di positivo. Ma potrebbe essere riscoperto il sentimento e il valore di vicinanza non soltanto quella fisica e sociale, ma soprattutto quella relazionale. Ci siamo abituati a vivere gradualmente un tempo e una vita fatti di chiusura, di isolamento, di sordità, di alienazione. Ognuno chiuso nel suo mondo interiore, sconosciuto a se stesso e all’atro, quello che appare è una immagine di sé e dell’altro sempre più sbiadita e forse non più riconosciuta, e senza risposta: “come può essere che io, che sono io,/non c’ero prima di diventare,/e che, una volta, io, che sono io,/non sarò più quello che sono?”. Perché negarci in questo tempo di vicinanza obbligata di riprendere il filo del legame relazionale e scoprire reciprocamente all’altro la faccia sconosciuta che nel tempo della lontananza è cambiata, che non è più quella di prima.

Perché non approfittare di questo tempo forzato di riconoscere che da tanto tempo, anche senza volerlo e senza accorgersene ci siamo abituati ad “abitare vuoti anziché mancanze”. Diverso è abitare in un luogo vuoto, abituarsi a vivere senza riconoscimenti, abituarsi a fare i conti sempre e solo con se stesso, con la propria autosufficienza illusoria di bastare a se stesso, senza amore. Diverso è vivere con la mancanza, che ci richiama il bisogno dell’altro, della vicinanza che consola e rassicura. Almeno in questo desiderio è contenuta una verità, presente in noi fin dalla nascita: il bisogno di Attaccamento. Bisogno universale, istintivo che accomuna non solo gli uomini, ma anche le specie viventi più vicine all’uomo nella scala evolutiva: individuare, cercare una figura che ci protegga, che ci rassicuri, che si prenda carico della nostra impotenza. Il bisogno dell’altro è un bisogno primordiale che ci accompagna “dalla culla alla tomba”. Scoprire così che due è meglio di uno, che senza la presenza dell’altro che ci accompagna e ci rassicura, senza l’amore vitale dell’altro l’alternativa è una vita in solitudine, vuota.