Il mio fallimento è il porto da cui uscire – – Giuseppe Basile

Una mia paziente mi scrive:

“Quanto al mio “fallimento”, cosa posso dire?

Il mio fallimento è il porto da cui uscire, c’è da chiedersi cosa mi stia portando con me?

La stanchezza, il fatto che io stessa non posso promettere di essere porto, base sicura per nessuno. Che dopo aver cercato di tamponare falle, nella vita dei miei, di mia madre per cominciare, senza aver capito da dove fossero nate quelle falle, negli ultimi anni ho cooperato a ingigantire falle.

Adesso bisognerebbe aprire un nuovo capitolo.”

Rispondo con una poesia di Edgar Lee Masters , Antologia di Spoon River

 

George Gray

Molte volte ho studiato

la lapide che mi hanno scolpito:

una barca con vele ammainate, in un porto.

In realtà non è questa la mia destinazione

ma la mia vita.

Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;

l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

E adesso so che bisogna alzare le vele

e prendere i venti del destino,

dovunque spingano la barca.

Dare un senso alla vita può condurre a follia

ma una vita senza senso è la tortura

dell’inquietudine e del vano desiderio —

una barca che anela al mare eppure lo teme.[1]

Fallimento è una esperienza di vita che ognuno prima o poi ha sperimentato e vissuto nella propria esistenza. La nostra vita è una vita di relazioni, il disagio dell’essere e vivere in relazione, spinge al cambiamento, cercato, pensato e voluto. Altrimenti la depressione patologica è in agguato, si chiudono i ponti con l’esterno, ci si chiude in un isolamento sempre più cupo.

Il problema è capire dove sta il fallimento, il fallimento di cosa, e giustamente, cosa e perché se lo porta con sé.?

Uscire è sempre una scommessa, non è detto che abbandonare il luogo dove si è vissuti pur con sofferenza, con la delusione delle aspettative del desiderio di voler essere, sia la cosa migliore. Tutto dipende:” c’è da chiedersi cosa mi stia portando con me?”  Se sulle spalle mi porto ancora i pesi che hanno appesantito l’esistenza, se non c’è stata una liberazione dai vincoli (psicologici, relazionali, di crescita), ci sarà solo in apparenza un cambiamento di vita, specialmente se non si sa dove andare e perché veramente si vuole cercare un altro posto.

Perché si può uscire e prendere altre strade pur restando nello stesso posto, perché per tutti, il viaggio, l’uscire, l’andarsene, soprattutto è un viaggio metaforico, un uscire da se stessi e un rientrare in se stessi, un rinascere, anche se può apparire una follia agli occhi degli altri. Vero è che “Dare un senso alla vita può condurre a follia/ma una vita senza senso è la tortura/dell’inquietudine e del vano desiderio.”

Né serve tamponare le falle, se specialmente sono quelle degli altri familiari, a cui spetterebbe il compito, per funzione e ruolo, il prendersene cura. Se successo, ed è possibile, allora è facile scivolare verso una patologia delle relazioni familiari e soprattutto di quelle genitoriali che non possono abdicare alla loro responsabilità.

Rimane la speranza attiva di scrivere un nuovo capitolo della sua storia.

Infine, mi pare significante l’analogia con il senso della parabola del figliol prodigo. Anche lui è un figlio che anela ad uscire di casa, di vivere la vita fuori, ad ogni costo. Se ne va, senza rimpianti e con l’illusione che il benessere sia nella ricchezza monetaria e nel cambiamento di vita. Ma si porta con sé anche il fallimento senza rendersene conto, se ne va, abbandona casa e famiglia senza un progetto e programma di dove andare e cosa fare, fino a ridursi a fare il guardiano di porci.

Paradossalmente però prende atto del suo fallimento, di figlio e di uomo e ritorna nell’unico posto sicuro, che, dopo tanto pensare, riconosce è la casa familiare da cui era fuggito.

Il superamento del fallimento è una nuova vita pur restando nella stessa casa. Ma ciò richiede la partecipazione  e la collaborazione degli altri familiari perché la famiglia è un sistema organizzato di relazioni interpersonali, di cui non sempre c’è consapevolezza, da cui si può uscire se si sa dove andare e perché.

[1] Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, trad. F. Pivano, Einaudi