Il percorso psicoterapeutico: La risposta ad un paziente – Giuseppe Basile

Un vecchio un paziente, che ha letto alcuni articoli nel mio blog, https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/  mi scrive:

“Sono un vecchio paziente, vecchio per età, ma non per saggezza. Al mondo dell’analisi vi fui avvicinato, per consiglio di un insegnante, in seconda media. L’abbandonai, l’analisi, perché vidi mia madre sofferente dopo il primo colloquio con il medico, il terapeuta era anche medico. Mia madre mi riferì quanto le era stato detto e probabilmente poco chiarito. A dodici anni non hai competenze, e applicai la tecnica della fuga. Ripetuta molte volte, spesso in ambito sentimentale.

Probabilmente quel medico se lo avessi contattato, “interrogato” avrebbe risolto il mio disagio. E non sarei qui, un vecchio paziente con il bisogno di capire. Capire me, ma anche il percorso che ogni essere compie, un percorso unico, accompagnato dal terapeuta.

E’ il nostro viaggio, di confronto con l’Altro e con noi stessi.

E ormai vecchio, mi “permetto” di cercare di capire, anche l’Altro, il terapeuta.

Non solo, ma leggendo in un suo articolo del suo blog (https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/i-molteplici-interlocutori-in-seduta-psicoterapeutica-giuseppe-basile-2/) trovo che:

“Per quanto possa sembrare paradossale, in una seduta psicoterapeutica ci sono situazioni in cui non sono presenti solo terapeuta e paziente che dialogano, ma sono presenti altri interlocutori invisibili”.

Scopro così che non siamo solo in due i presenti alla seduta:

“….in seduta psicoterapeutica in cui paziente e terapeuta tentano di definirsi su: chi sei tu? e chi parla a chi? E chi sono i fantasmi invisibili, interlocutori sconosciuti presenti che parlano per noi e interagiscono senza essere facilmente riconoscibili?”. Sono quei fantasmi che vai cercando, tracce del tuo profondo ma anche dell’essenza di chi ha condiviso la vita con te”. (I molteplici interlocutori in seduta psicoterapeutica, https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/wp-admin/post.php?post=3002&action=edit )

In un altro lavoro vedo scritto:”

E creare ponti tra terapeuta e paziente non è facile…. il paziente si rivela…..quando abbandona le sue difese… e solo se percepisce che il terapeuta possiede il tempo dell’attesa.

 Quando è che un paziente abbandona le sue difese?

Quando ha davanti solo due prospettive, la Fuga o rimanere, per vedere di capire.

https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/comunicare-come-problema-eugenio-borgna/

E non è forse anche un modo di comunicazione che avviene tra analista e paziente, durante l’analisi, e anche dopo? Un parlare invisibile, senza parole.

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Commento

Questo vecchio paziente si chiede ancora di capire e capirsi, nonostante i diversi percorsi psicoterapeutici, cominciati addirittura in seconda media, poi proseguiti in età adulta. E si chiede ancora di capire andando avanti negli anni, il suo percorso, il senso della sua vita, la sua storia.

Riconosce quasi un suo fallimento, il suo non sentirsi realizzato nel suo bisogno di essere se stesso e non come gli altri lo vedono. Ammette i suoi fallimenti relazionali e la sua unica difesa, la fuga, per non sentirsi intrappolato. Ma non rassegnato all’impotenza, spinto ancora dal desiderio di essere se stesso, se pensa di fare un percorso con uno psicoterapeuta. E bisogna dirlo, il tempo della vecchiaia è anche il tempo dei bilanci di una vita, della percezione del tempo che scorre con un ritmo sempre più veloce, che è inutile inseguirlo.

Ha senso allora chiedersi chi sono, fare bilanci, e soprattutto sentirsi, novello Dante alla ricerca della verità accompagnato da un Virgilio psicoterapeuta in un “percorso unico”? Con la differenza che paziente e terapeuta tentano di definirsi su: chi sei tu? e chi parla a chi?

Lo psicoterapeuta è chi accompagna nel percorso, ma stando tre passi indietro, che segue con attenzione, ma non dà risposte, che però fa domande, secondo il metodo socratico, perché il paziente scopra la “sua” verità sul “suo” esistere. Ed è inutile chiedere conferma al terapeuta, aspettandosi una risposta che non può dare. Ma “Risposta non c’è”, cantava Bob Dylan.

In questo cammino dantesco di conoscenza di sé, prima o poi ci si imbatte in altri personaggi significativi della nostra vita, che anche se assenti, richiamati dalle circostanze dei fatti narrati “sono presenti altri interlocutori invisibili”.

Scoprire così che la nostra storia non è una storia individuale, ma una storia connessa con altri personaggi significativi con cui siamo stati e siamo in relazione, e prima di tutti con i nostri familiari che hanno lasciato in noi un segno significativo nel bene e nel male:

“La vita di ciascuno di noi è un romanzo. Voi, me, noi tutti viviamo prigionieri di un’invisibile ragnatela di cui siamo anche uno degli artefici. Se imparassimo dal nostro terzo orecchio e dal nostro terzo occhio ad afferrare, a comprendere meglio, ad ascoltare e a vedere queste ripetizioni e coincidenze, l’esistenza di ciascuno di noi diventerebbe più chiara, più sensibile a ciò che siamo e a ciò che dovremmo essere.” [1]

Il terzo occhio e il terzo orecchio potrebbero essere quelli del terapeuta, se li sa usare, se è capace di rispettare e capire il blocco, il silenzio del paziente, la divagazione difensiva e comprensibile che può portare fuori strada. “Il paziente si rivela quando abbandona le sue difese… e solo se percepisce che il terapeuta possiede il tempo dell’attesa”. Solo allora abbandona le sue difese protettive, anche se può sembrare un paradosso: cercare aiuto e negarlo. Gioco relazionale paradossale che può continuare, sconosciuto anche al terapeuta, in una ripetitività senza fine.

Finisce quando il paziente abbandona le sue difese, quando deve scegliere, su sollecitazione silenziosa del terapeuta: o la fuga o rimanere, convinto per vedere e capire il volto nascosto di sé.

[1] Anne Aneelin Schützenberg, “La sindrome degli antenati”