In manicomio di Eugenio Borgna

In manicomio

Eugenio Borgna

Come mi è apparso il manicomio di Novara quando, la prima volta, ne ho varcata la soglia? Non il deserto delle relazioni e delle emozioni, ma lo stupore dell’ascolto e della reciprocità relazionale. Non la percezione della follia come esperienza radicalmente estranea alla condizione umana, ma come esperienza che fa parte della vita, della nostra vita, della vita di ciascuno di noi.

[…] Sono stati anni che mi hanno consentito di conoscere cosa fosse, e cosa sia, la follia, come fosse, e come sia, possibile, esserle di aiuto, in un ascolto che non tenesse solo presente il tempo dell’orologio, il tempo della clessidra, ma il tempo interiore, il tempo vissuto, il tempo agostiniano.

[…] Sono stati anni silenziosi che mi hanno consentito di riconoscere la follia nei suoi aspetti relazionali che richiedono, lo continuo a dire, accoglienza e silenzio del cuore.

[…] Sono stati anni che hanno continuato a vivere nella mia memoria e nel mio cuore, e che mi hanno fatto ripensare agli enigmi e in fondo al mistero della follia che mai avrei potuto conoscere senza la mia vita in un manicomio silenzioso e solitario, quello femminile di Novara

La premessa a queste esperienze e a queste conoscenze del cuore è sempre la stessa: ascoltare, essere in dialogo continuo con il dolore e la sofferenza, con i desideri e le attese, con le inquietudini e le speranze, delle persone che stanno male, e chiedono un aiuto, che non sia solo farmacologico. Quando stiamo male psichicamente, crescono la nostra sensibilità e la nostra attenzione alle parole che ascoltiamo.

[…] Cosa mi dicevano le pazienti, quando sono entrato in manicomio, e le ascoltavo, cosa che non avveniva da molto tempo?

Mi dicevano le loro ansie e le loro tristezze, le loro nostalgie e le loro inquietudini, la loro solitudine e la loro disperazione, le loro allucinazioni e i loro deliri, insomma le loro esperienze e la storia interiore della loro vita; ma questi modi di vivere nel dolore non li avrei mai conosciuti se non fossi riuscito a creare fragili ponti di comunicazione con la loro vita interiore, e a dire loro parole gentili, e aperte alla speranza.

Vorrei allora chiedermi cosa desta in noi, nel momento della cura, l’angoscia di un paziente, immerso nel lago oscuro della depressione, che nella morte volontaria intravede l’ultima zattera di salvezza da un dolore lacerante dell’ anima?

[…] Non dovremmo mai dimenticare, in ogni caso, che senza analizzare cosa accade in noi, nella nostra vita emozionale, nulla sapremmo cogliere delle emozioni dei pazienti, e delle cose da dire loro. Se non so ascoltare le emozioni che sono in noi, quelle che nascono in noi, quando ci incontriamo con pazienti divorati dalla tristezza e dall’angoscia, se non so conoscere e arginare le loro angosce e le loro inquietudini, le loro paure e le loro intolleranze, non saprei essere loro di aiuto. Non basta riconoscere e moderare le nostre emozioni dinanzi alle angosce dei pazienti, e dinanzi alle loro tentazioni di suicidio, ma è necessario anche, non posso non insistere su questo, immedesimarsi nelle loro esperienze vissute senza considerarle estranee alla condizione umana. Insomma, le nostre esperienze interiori, la paura e l’angoscia in particolare, ma anche la distrazione e la rassegnazione, la tristezza e la letizia, la sincerità e le preoccupazioni, ci fanno cambiare il modo con cui ci incontriamo con gli altri, e contestualmente il modo con cui gli altri si incontrano con noi.

Quando sono entrato nel manicomio di Novara, lo vorrei dire ancora, non avevo alcuna esperienza, né alcuna conoscenza, della follia, e quanta fatica, e quanta ansia, cercare di entrare in relazione con pazienti che da anni vivevano chiuse in una loro radicale solitudine, e sembravano incapaci di un contatto umano, mentre roveti ardenti si agitavano nel loro cuore. Mi guardavano insicure e inquiete, silenziose e apparentemente distratte con occhi imploranti, che si accornpagavano alle loro lacrime e al loro sorriso. Non mi è stato facile nelle prime settimane e nei primi mesi dire loro parole assorte che sapessero testimoniare la mia accoglienza e la mia vicinanza, la mia solidarietà, e la mia speranza. La cosa, che ho fatto subito, è stata quella di cancellare ogni forma di contenzione, mai contenere le pazienti, mai tenere le porte chiuse, mai elettroshock, mai gesti di aggressività e di indifferenza.

Mi sono sempre state insostenibili le diverse forme di arida, crudele indifferenza, che oggi dilagano, indirizzate in particolare alle persone fragili e insicure, infelici e ferite dal dolore. La violenza può non essere semplicemente quella delle azioni e dei gesti, ma anche quella delle parole, che fanno talora del male ancora più lancinante di quello delle azioni.   pagg. 56 – 61

Eugenio Borgna IL FIUME DELLA VITA. Una storia interiore Feltrinelli 2020

***   ***   ***

A chi parla Eugenio Borgna? Apparentemente agli addetti ai lavori, psichiatri, psicoterapeuti, medici, infermieri, operatori sanitari, che hanno in cura e curano i malati di mente. Ma parla a tutti noi, perhè la follia comunque sia è una esperienza umana, che non dovrebbe lasciarci indifferenti, perché è un evento che ci appartiene e che ci può toccare in varie forme e modi nel corso della vita. Perché ognuno di noi ha il suo limite, la caduta è possibile e non sempre siamo capaci di rialzarci e riprendere il cammino. La caduta mentale è nell’ordine delle cose umane, anche se cerchiamo di scongiurarla. Può essere una relazione mancata, una perdita del lavoro, un sentirsi trascurato per lungo tempo, un precipitare improvviso nel buio della depressione, un sentirsi soli e inascoltati, la perdita di un familiare. Tutto può essere occasione di uno squilibrio mentale, che ha una storia, anche se apparentemete appare all’improvviso.

Il problema è l’aiuto e la cura. Per Eugenio Borgna la cura fondamentale del malato mentale è  “l’ascolto, che non tenesse solo presente il tempo dell’orologio, il tempo della clessidra, ma il tempo interiore”. L’ascolto richiede un tempo senza tempo, il tempo interiore, un tempo non rigido e fissato da regole professionali scolastiche o economiche. Un tempo sospeso, lo definisco io, e lo pratico da sempre fin da quando ho iniziato la pratica della psicoterapia. Anzi raccomando ai pazienti di non avere altri impegni dopo la seduta, perché non ho un tempo di seduta prestabilito, perchè voglio sentirmi libero dall’obbligo della fine e dell’orologio. Tante volte mi sono chiesto e mi chiedo quanto sono nel giusto in questo mio essere trasgressivo e divergente, ma ormai l’età mi permette comunque di sentirmi rassicurato in quello che faccio e come lo faccio: il tempo dell’ascolto non ha prezzo, né bisogno di tecnicismi.

Infine mi sento rassicurato perchè sperimento sempre più che il tempo della seduta è un tempo prezioso per il paziente, perché è un tempo di comunicazione con se stesso prima di tutto, tanto più quando si è coppia o famiglia. La comunicazione è la grande assente nelle relazioni umane contemporanee, sostituita da un cinquettio continuo, vacuo, il più delle volte insignificante.

Il nostro tempo è un tempo occupato forzatamente dalla vanità.

(https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/vanitas-vanitatis-omnia-vanitas-est/)

Una risposta a “In manicomio di Eugenio Borgna”

  1. Bello il concetto del tempo interiore. Mi piace! Anche io nel mio lavoro tenevo a dedicare più tempo del previsto tempo tecnico e organizzativo. Sforavo spesso. Ma ne ero ripagata. Farò mio il concetto di tempo interiore. Grazie Pino . Serve sempre.

I commenti sono chiusi.