La presenza di una assenza di Giuseppe Basile

La presenza di una assenza

Giuseppe Basile

Con la sua morte comincia una nuova relazione con mio padre.

Relazione invisibile e silenziosa, che non ha bisogno di parole, ma che non è muta, caratterizzata dal bisogno di capire e scoprire i “perchè” mancati, ma presenti.

Assenze senza risposte, zone d’ombra nella  storia di tutti noi, mancanze che si sono trasmesse e che forse si trasmetteranno di generazione in generazione senza saperlo e volerlo. Peggio se assunte acriticamente e passivamente, convivendo così con false verità e segreti familiari.

Certo non tutto si può sapere e scoprire del passato depositato in noi dalle generazioni precedenti, ma il desiderio di conoscere dovrebbe essere coltivato. “Ciò che hai ereditato dai Padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero, era solito affermare Freud parlando di trasmissione dell’eredità psichica e non ancora di transgenerazionale in senso lato”[1].

Ci si potrebbe chiedere: ma a che serve  tornare indietro, al passato che è in noi, anche se sconosciuto, tanto la vita è quella che si vive oggi e il futuro è imprevedibile, perché nessuno può dire quello che saremo domani e il passato non si può più cambiare?

Ma è vero che il passato, anche se sconosciuto, vive in noi attivamente, anche se raramente ce ne accorgiamo, e se siamo quello che siamo oggi in parte è grazie al passato che vive in noi nel bene e nel male, miscuglio familiare di sentimenti, esperienze, storie, credenze, segreti, giustizia e differenze generazionali.

Bisogna fare i conti con il passato quando il dolore di vivere bussa sistematicamente alla nostra porta. Aprire e aprirsi per ascoltare è la cosa più saggia da fare, se si ha la forza di farlo. E’ quello che avviene in psicoterapia familiare, specialmente se sono presenti più componenti della famiglia: aprire scenari diversi, dare voce anche agli assenti richiamati dal loro dimenticatoio, scrivere storie diverse

Allora si aprono altri e nuovi scenari di una storia sconosciuta, inconscia, depositata, e a volte volutamente resa segreta. Il non detto, il non conosciuto è potenzialmete patologico, che attivato inizialmente come scelta difensiva o protettiva, se trasmesso  e vissuto inconsapevolmente dalle generazioni successive.

Tanto più se il segreto è fattore e  base di organizzazione della personalità di un figlio a cui viene dato il nome di un membro della famiglia morto, come era usanza e tradizione nelle famiglie. Si attiva allora un processo di identificazione imposto e perciò potenzialmente patologico come se il figlio dovesse essere copia del familiare morto. “Il problema si fa rilevante quando la necessità di acquisire uno stato di autonomia e separatezza comporta un processo di disidentificazione o di trasformazione creativa delle precedenti identificazioni. Questo processo comporta una selezione, una trasformazione, forse un abbandono delle precedenti eredità fantasmatiche che abbiamo ricevuto dagli altri, specialmente dai nostri genitori”.[2]

Processo non facile quello dell’abbandono delle identificazioni forzate per costruire una identificazione libera e personale.

Un caso clinico esemplare

Si tratta di un caso psichiatrico di una donna seguito per la mia tesi di laurea in Psicologia con la psichiatra del Centro di Igiene Mentale che l’aveva in cura.

La paziente è una donna di 23 anni circa, di nome Maria, sposata e madre di una bambina di 2 anni. Maria è nata in seguito alla morte del fratello maggiore Mario, morto in un incidente sul lavoro guidando senza patente, perchè ancora minorenne, un camion del padre. La madre contemporaneamente alla morte del figlio ha avuto un episodio psicotico. Il medico curante consiglia i genitori di avere un altro figlio e così dopo un anno dall’incidente è nata una bambina a cui è stato dato il nome del fratello morto, Maria. Maria occupa la stanza del fratello, ma solo per dormire, perché di solito la stanza viene chiusa a chiave, di fatto trasformata dalla madre in un santuario con foto del figlio, lumini accesi e segni religiosi di vario tipo. Di fatto Maria viene mascolinizzata dalla madre, vestita sempre fin da piccola con abbigliamento maschile. Non può portare in casa le sue amichette e giocare con loro nella sua cameretta. Spesso si sente accusata, quando manifesta la sua insofferenza con ribellione e rifiuti di non somigliare al fratello sconosciuto sempre bravo, buono e ubbidiente, modello con cui identificarsi. Quando Maria ha tre anni muore la nonna, a cui è molto attaccata, e prova per la prima volta un’angoscia di morte. Contemporaneamente la madre ha anch’essa una crisi tale da dover essere ricoverata in ospedale. Successivamente questa angoscia di morte si  struttura maggiormente, per cui le sue esperienze legate a fatti di morte sono sempre traumatiche e fanno scattare le sue crisi d’angoscia con aspetti talvolta dissociativi. La sua seconda grave crisi l’ha all’età di quindici anni per la morte di una sua amica. E’ in questa occasione che, oltre all’angoscia di morte, percepisce uno sdoppiamento della sua personalità, per cui sente dentro di sè due persone, di cui una cerca di far morire l’altra. Un’altra grave crisi si verifica quando Maria ha 17 anni (età della morte del fratello) perchè pensa di essere erede del destino del fratello; a circa 21 anni, in corrispondenza con la riesumazione del corpo del fratello ha un episodio analogo. Pensa: “ora riesumano il corpo di mio fratello e al suo posto sotterrano me”. Alla vigilia del suo matrimonio Maria ha ancora un’altra crisi violenta, in cui si sente in potere dell’altra persona che vive in lei e che vuole farla morire (successivamente questa persona è identificata con una forza religiosa).

[1] Il suono del silenzio. La dinamica della trasmissione transgenerazionale di Maurizio Gasseau, Fabio Borghino

[2] Il transgenerazionale tra mito e segreto, di Anna Maria Nicolò Corigliano  –   Contributo presentato al Seminario Internazionale di Studi “Dinamiche intergenerazionali nello sviluppo e nella clinica”, Napoli, 12-14 novembre 1993